lunedì 26 ottobre 2015

Siccità e crisi alimentare in Kenya.

La recente siccità che ha colpito il Kenya ha spinto milioni di persone a patire la fame, aggravando le condizioni di vita e costringendoli alla riduzione dei pasti giornaliero oppure a spostarsi verso la città sostenendo spese ingenti per poter acquistare cibi più economici ma di scarso valore nutritivo. La fascia più colpita è quella dei bambini al di sotto dei cinque anni, la più estesa di tutta la popolazione keniota (8,2% le femmine, 8,3% i maschi) ma anche quella più esposta agli effetti della fame e ad altre malattie: secondo le stime di Save The Children almeno due milioni sono malnutriti. Già in Kenya vivono oltre 41.609.700 di abitanti ma solo una piccola parte della popolazionepuò godere del benessere (appena il 2%), mentre oltre il 50% vive in condizioni di povertà più assoluta e soffre la fame, si stima che in un anno siano morti 473 bambini. Nonostante ciò la popolazione è destinata ad aumentare. 

In un paese dove il suolo è stato sfruttato e impoverito durante gli anni del colonialismo inglese, con  le coltivazioni industriali che sostituirono le vecchie colture di sussistenza, le attuali piantagioni di mais, sorgo, miglio e patate non riescono a soddisfare il fabbisogno interno; già I fiumi e i corsi d’acqua non hanno grosse portate, i due principali, il Tana e il Galana, hanno un regime che varia tutto l’anno, influenzato  dalla frequenza delle precipitazioni piovose. Presso il Distretto di Turkana, situato nella regione nord-ovest del paese,c’è una forte carenza di infrastrutture per l’approvvigionamento idrico e di fatto la popolazione non ha accesso all’acqua potabile e solo il 5% della terra arabile è irrigato ele acque del Lago Turkana sono salate e calde.

La recente siccità che ha colpito queste terre ha causato un drastico calo dei pascoli e di acqua per il bestiame, il raccolto di mais è sceso di almeno un terzo rispetto alla media degli anni precedenti, costringendo la maggior parte della popolazione locale ad abbandonare queste terre perché si sono inaridite e ormai non sono più adeguate per la produzione alimentare.

 Nel 2009 la FAO lanciò un allarme sulla crisi alimentare, sollecitando aiuti internazionali per poter sfamare gli oltre 3.5 milioni di kenioti in stato di emergenza alimentare, di questi 1,6 milioni hanno ricevuto cibo dal Programma Alimentare Mondiale (WFP), ma il numero di persone che necessitano di assistenza alimentare potrebbe aumentare.

Per far fronte all’emergenza, nel 2011 il governo del Kenya ha autorizzato l’importazione e la coltivazione di prodotti OGM, diventando così ilquarto Paese africano ad aprire le porte ai prodotti transgenici dopo il Sud Africa, l’Egitto e il Burkina Faso per poter risolvere la crisi alimentare che colpisce milioni di persone nel corno d’Africa. Tale scelta è stata criticata dalle organizzazioni ambientaliste, da alcuni parlamentari e soprattutto dai produttori agricoli locali perché un eventuale introduzione di sementi geneticamente modificati può contaminare i prodotti locali e non poter raggiungere la sicurezza alimentare auspicata e non potrebbero più conservare i propri semi per la stagione successiva, impedendo così ai produttori locali di scambiarli con gli altri produttori, una pratica tipica dell’agricoltura locale. Le piante OGM possono resistere ad alcuni pesticidi o essere immuni dai parassiti e possono migliorare le caratteristiche del suolo sfruttato rendendo le colture più forti, ma al momento non sono in grado di resistere a lunghi periodi di siccità e non potrebbero usufruire di un’adeguata copertura dei canali di irrigazione, che in Kenya non sono del tutto efficaci;inoltre comporterebbero dei rischi per la salute umana perché possono provocare delle reazioni allergiche gravi e non prevedibili e ci sarebbe una perdita di biodiversità delle specie vegetali. 

Di fatto gli OGM sarebbero un prodotto inutile. Per questo motivo, nel 2013 il Ministro della Salute Beth Mugo ha vietatol’importazione di prodotti OGM, specificato che il divieto rimarrà in vigore finché non sarà dimostrato che i prodotti geneticamente modificati non sono un pericolo per la salute pubblica.



giovedì 24 settembre 2015

L’Area marina protetta Isola di Montecristo nell’Arcipelago Toscano: peculiarità geombientali, impatti antropici, criticità e potenzialità.

L’isola di Montecristo (dal nome medievale Monte Christi) è situata ad ovest dell’Isola del Giglio e del Monte Argentario; fa parte del Comune di Portoferraio (LI). Coperta dalla macchia mediterranea, gode di un clima mite, caratterizzato da inverni non molto freddi ed estati calde ma non afose. Le precipitazioni sono scarse, con valori medi annui inferiori ai 500 mm. Il territorio, che si estende su una superficie di 10,39 km², è interamente montuoso; il punto più alto dell’isola è il Monte della Fortezza, chiamato così per la presenza della Fortezza di Montecristo, la cui sommità raggiunge i 645 metri. L’isola ha un solo approdo che si trova a Cala Maestra. Il substrato geologico è costituito da rocce granitiche con grandi cristalli di feldspato. La conformazione del territorio non ha reso possibile il popolamento stabile dell’isola, favorendo così la conservazione della flora e della fauna locale. Attualmente sull’isola vivono solo due agenti del Corpo Forestale dello Stato, che si alternano ogni due settimane.

L’isola era già frequentata in età romana e tardoromana, come testimoniano le scorie di lavorazione del ferro rinvenute nella Cala Maestra. Secondo la leggenda, nel V sec. d.C. San Mamiliano, vescovo di Palermo, vi avrebbe trovato rifugio con i suoi seguaci fuggendo dai Vandali che avevano conquistato la Sardegna, e vi costruì l’omonimo Monastero, edificandolo sui resti di un tempio romano dedicato a Giove. Il Monastero subì due grandi devastazioni per opera dei saraceni nel 727 e nel 1323; nel 1553 fu espugnato da Dragut, ammiraglio e corsaro ottomano: da allora l'isola di rimase disabitata, fino al 1814, quando Napoleone Bonaparte vi inviò un presidio militare. Dal 1839 al 1849 ci furono alcuni tentativi di colonizzazione di Montecristo, tutti falliti. Tra il 1874 e il 1884 l’isola divenne colonia penale agricola con 45 detenuti e 5 guardie carcerarie. Nel 1889 il Demanio di Livorno concesse in affitto l'isola al marchese fiorentino Carlo Ginori Lisci, che la trasformò in riserva di caccia personale, cedendola in seguito a Vittorio Emanuele III. Nel corso della seconda guerra mondiale fu una postazione militare dell’Asse. I diritti di gestione di Montecristo furono acquistati da una società romana chiamata Oglasa nel 1953, creando in seguito il Montecristo Sporting Club (1970) per la caccia d'inverno e il turismo d'estate. Finalmente, nel 1971, fu dichiarata Riserva Naturale dello Stato, inclusa nella Rete europea delle Riserve Biogenetiche del Consiglio d'Europa nel 1977 ed infine nel 1981 venne istituita, una zona di tutela biologica per le coste.

L’isola è stata dichiarata dal Consiglio d’Europa Riserva naturale biogenetica ed inserita nella Rete Natura 2000, ed è Sito di Interesse Comunitario e Zona di Protezione Speciale dell’Unione Europea. Fa parte, assieme a Capraia, Gorgona, Pianosa, Giglio, Elba e Giannutri, del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, istituito nel 1996, esteso per 16.856,00 ettari a terra e 56.766,00 a mare, il più grande d'Europa.

La zona di tutela marina, in origine di soli 500 metri, oggi si estende in una fascia di mare larga 1 Km e protegge e favorisce la riproduzione e l'accrescimento delle specie marine. Il fondale marino è formato da pareti verticali che sprofondano rapidamente, è ricoperto di fauna e flora multicolori, popolato da molte specie di posidonia, anemoni marini, gorgonie, coralli, il pesce luna, Cernie, Saraghi, Corvine, Orate, Ricciole, Tunnidi e Dentice. Raramente viene avvistata la Foca Monaca, una specie minacciata dall’estinzione (ne rimangono meno di 500 esemplari). L’isola è anche un punto di sosta per gli uccelli migratori ed ospita colonie di uccelli marini, soprattutto la berta minore.

Si possono incontrare al largo dell’isola perfino dei cetacei; infatti il Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano viene anche chiamato il "Santuario Internazionale dei Cetacei" per la presenza di specie come il delfino comune, il tursiope, la balenottera comune, il capodoglio, lo zifio, il grampo, il globicefalo e la striata.
Essendo una Riserva Integrale dello Stato, sono vietate attività non autorizzate dal Corpo Forestale. Pertanto non si può pernottare nè pescare, sono proibite la balneazione, le immersioni subacquee e la navigazione dentro la zona di tutela marina. Per eventuali visite all’isola serve il permesso al Corpo Forestale di Follonica, poichè l’isola può sopportare la visita di 1000 turisti l’anno a causa del suo delicato ecosistema terrestre e marino. A Cala Maestra non è possibile calare l'ancora ma si deve attraccare al gavitello o al molo e il traghetto deve arrivare perpendicolarmente alla costa. Si può transitare entro 3 miglia marine.

Dal punto di vista faunistico, sull’isola vivono specie animali e vegetali che in passato erano molto diffuse nel Mediterraneo. È presente il Discoglosso Sardo, un anfibio presente solo in Sardegna, Corsica, Capraia, Argentario e nelle Isole di Hyères. Di particolare rilievo sono le formazioni di gigantesche eriche arboree che coprono i fondovalle e alcuni lecci millenari che rimangono in vita alle quote più alte.

Da segnalare, inoltre, la presenza della vipera di Montecristo (Vipera aspis) e della capra di Montecristo (Capra aegagrus), una specie a rischio di estinzione; poichè ne rimangono solo 250 esemplari allo stato libero, il Bioparco di Roma ha messo a disposizione dalla fine del 2012 un recinto di 1000 m2 che ospita cinque esemplari di capre (tre femmine e due maschi), per un’eventuale futuro ripopolamento dell'isola. Le specie autoctone sono il Limonium montis-christi (una Bietola selvatica), la Chiocciola di Montecristo (Oxychilus oglasicola) presente anche sull'Isolotto della Scola (Pianosa), lo Scorpione di Montecristo (Euscorpius oglasae) e la Lucertola di Montecristo (Podarcis muralis subsp. calabresiae).

In questi ultimi anni l’isola ha subito l’invasione di due specie alloctone, il Ratto nero e l’Alianto, una pianta decidua originaria della Cina nordoccidentale e centrale introdotta all'inizio del XX secolo. In assenza di predatori il Ratto nero, arrivato sull’isola tramite navi e i traghetti, ha potuto proliferare e minaccia la sopravvivenza delle specie autoctone di uccelli marini, in quanto si ciba delle loro uova e dei pulcini. Per far fronte a questo problema, sono state distribuite nel territorio 26 tonnellate di esche avvelenate, ma questo intervento ha scatenato le proteste della LAV, perchè la presenza di esche è un rischio per la fauna dell’isola. La derattizzazione sembra aver avuto esiti positivi, e grazie a questo intervento le Berte minori hanno potuto ripopolare l’isola. Nel 2009 l'Unione Europea ha finanziato il progetto Montecristo 2010 che mira alla lotta delle specie invasive, all’eradicazione del ratto nero e dell'ailanto e la tutela della capra selvatica e il recupero del suo habitat.

In tempi recenti alcune compagnie petrolifere, italiane e straniere, avevano pianificato trivellazioni per l’estrazione di petrolio e gas, per la produzione energetica nazionale, con il beneplacido dell’ex ministro Corrado Passera, per un totale di 15 miliardi di euro di investimenti. L’area interessata, di 643 km² (tre volte grande l’isola d'Elba) era tra Pianosa e Montecristo.

Tale decisione ha suscitato la reazione di quattro comuni dell’Elba e di varie associazioni ambientaliste, tra le quali Legambiente, anche perchè la società petrolifera inglese Puma Petroleum aveva già fatto un analogo tentativo nel 1999. Un eventuale incidente come quello della Deepwater Horizon o come quello del Golfo del Messico, potrebbe danneggiare l’intero ecosistema, in particolare quello diell’Isola di Montecristo, l’unica tra le isole toscane ad essere rimasta incontaminata, ed anche il settore turistico dell’Arcipelago Toscano. L’ex ministro dell’Ambiente del Governo Berlusconi IV, Stefania Prestigiacomo, aveva vietato le trivellazioni solo entro 5 miglia dalle coste e 12 dalle aree marine protette, un divieto ritenuto insufficiente da Legambiente stessa. Nel 2003 era stata proposta una zonizzazione del mare dell'Arcipelago, con una zona A per una protezione integrale, una zona B e C con regolamentazioni severe per la pesca professionale, sportiva, la sosta delle imbarcazioni ed altre attività in mare.

In futuro è prevista l’istituzione dell'Area Marina Protetta dell’Arcipelago Toscano, che comprenderà anche l’isola di Montecristo, identificata nella legge L. 979/82. Con l’istituzione di tale area marina protetta non saranno possibili eventuali trivellazioni petrolifere e si potrà salvaguardare l’ecosistema marino e terrestre, oltre che incentivare di più il turismo, possibilmente ecosostenibile, delle isole toscane. L’isola di Montecristo è un chiaro esempio di come poter tutelare il paesaggio terrestre e marino italiano, in quanto la presenza ridotta dell’uomo ha potuto garantire la sopravvivenza dell’ecosistema dell’isola stessa.


Riferimenti Bibliografici
Marco Lambertini, Arcipelago Toscano e il Parco Nazionale, Pisa 2002.
Riferimenti Sitografici http://www.comune.roma.it/wps/portal/pcr?contentId=NEW398581&jp_pagecode=newsview.wp&ahew=contentId:jp_pagecode http://www.minambiente.it/pagina/aree-marine-di-prossima-istituzione http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/08/14/gas-petrolio-in-toscana-riparte-la-caccia.html http://www.montecristo2010.it/

venerdì 3 luglio 2015

Il sorpasso della popolazione indiana sulla Cina.

Nel corso degli ultimi 20 anni l’India è diventato il secondo paese più popoloso al mondo, con oltre 1.210.000 abitanti e rappresenta il 17% della popolazione mondiale dietro alla Cina che conta di oltre 1.410.586.000 di abitanti e la densità media è di 380 ab/Km², maggiore rispetto ai 139 ab/Km² della Cina e i 184 ab/Km² della Nigeria; il tasso di natalità si attesta al 23,0 e fa dell’India, secondo un’indagine effettuata dalle Nazioni Unite nel periodo 2005-2010, uno dei 195 paesi col più alto tasso di natalità. Il Tasso di natalità è il numero di nascite ogni mille abitanti annuo e si misura tramite il rapporto di un numero di nascite avvenute in una determinata comunità/popolazione in un determinato periodo di tempo e la comunità/popolazione stessa dello stesso periodo di tempo moltiplicati per 1000

n(x)= tasso di natalità di un anno x
N(x)= numero di nati nell'anno x
P(x)= popolazione dell'anno x
P(x-1)= popolazione dell'anno precedente all'anno x.

mentre il tasso di mortalità è di 7,43, il tasso di fecondità è del 2,6. Il tasso di mortalità è il rapporto tra il numero di morti di una comunità/popolazione in un determinato periodo di tempo e la comunità/popolazione nello stesso periodo di tempo, è dato dalla seguente formula Tmortalità=Mmedia/Pmedia×1000; il tasso di fecondità è il rapporto tra il numero di nati vivi da donne in età feconda (15-49 anni) e il totale della popolazione residente femminile in età feconda per 1000. Secondo le previsioni demografiche dell’ONU l’India è destinata nei prossimi anni, probabilmente nel 2030, ad essere  il paese più popoloso al mondo con quasi 1.476.377.00 miliardi di individui, superando di fatto la Cina. Nonostante il suo territorio sia circa ¼ di quello cinese, la cui superficie geografica è di 3.287.263 km² contro i 9.706.961 km² cinesi, la popolazione dell’India è destinata ad aumentare ancora fino ad avvicinarsi ai 2 miliardi di individui.

Nel  corso degli ultimi anni la piramide d’età (Grafico usato per descrivere la distribuzione per età di una determinata popolazione) della popolazione dell’India è gradualmente cambiata: passando dalla fase di “espansione” (popolazione in crescita) in meno di 24 anni si è giunti ad una fase di crescita quasi nulla, la piramide ha assunto un aspetto molto simile a quello delle piramidi d’età dei paesi sviluppati. A partire dal 2065 la piramide assumerà una forma a trapezio, dovuta al lento e progressivo calo della popolazione previsto.
  


Già negli anni '70 il primo ministro Indira Gandhi  tentò di attuare un programma di sterilizzazione forzata per far fronte al problema di sovrappopolazione ma con esiti negativi, poichè il programma chiedeva la sterilizzazione agli uomini che avevano già due o più figli ma colpiva la classe sociale più povera e il risultato finale fu  un'avversione pubblica generalizzata contro ogni forma di pianificazione familiare. Recentemente il governo indiano ha utilizzato un metodo meno drastico, abbassando i prezzi delle televisioni per poter ridurre le nascite, ma tale soluzione ha avuto esiti non soddisfacenti.

Negli ultimi 25 anni l’economia del paese è cresciuta, le riforme economiche che hanno aperto rogressivamente i propri mercati al mondo hanno reso l’India uno dei paesi in via di sviluppo, la seconda economia in rapida crescita (BRIC: Brasile, Russia, India e Cina) la dodicesima economia mondiale in termini nominali oltre ad essere la quarta per potere d'acquisto. Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale a fine 2012 il PIL nominale ammonta a 1.841.717 miliodi di $ mentre il Reddito pro capite nominale è di 1501 $. Il settore primario  rappresenta il 28% del PIL, mentre il servizio e settori industriali costituiscono rispettivamente il 54% e 18%. Contemporaneamente alla crescita economica c’è anche una domanda di energia  crescente, secondo la Energy Information Administration, l'India è diventato il sesto più grande consumatore di petrolio e il terzo per lo sruttamento del carbon fossile.
Il tasso di alfabetizzazione è del 61%, di cui il 73,4% è costituito da uomini e il 47,8% dal le donne, la spesa per l'educazione è circa il 3,2% del PIL. Secondo il "modello 10+2", il ciclo scolastico dura 12 anni, suddiviso in quattro fasi: primaria, primaria superiore,secondaria e secondaria superiore. Nello Stato del Kerala si registra il più alto tasso di alfabetizzazione (91%), mentre in quello di Bihar il tasso è il più basso di tutta l’India (47%). Al 2008 la speranza di vita, ossia il numero medio, della vita di un uomo a partire da una certa età all'interno della popolazione analizzata, è di 61 anni, 59 per uomini e 63 per le donne, la mortalità infantile è di 78 ogni 1000 bambini nati. Si stima che almeno 5,1 milioni di persone siano affette di AIDS, che ha causato oltre 301.000 decessi nel 2001.
Nonostante questi ottimi risultati, però, la crescita economica è stata irregolare o diseguale tra diversi gruppi socio-economici, varie regioni geografiche e tra zone rurali e urbane. Anche se la vita delle classi sociali più elevate è migliorata, nel paese si registra una sostanziale e generalizzata condizione di povertà, un abitante su 3 in India vive in condizioni di povertà, nel 2005 si contavano 456 milioni di persone che vivono sotto la quota minima di sopravvivenza, costituendo così il 33% di poveri del mondo, almeno il 75,6% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e secondo un rapporto del NCEUS (National Commission for Enterprises in the Unorganized Sector) oltre 236 milioni di persone vive con meno di 50 centesimi di dollaro quotidiani, la maggior parte dei quali lavora in settori informali privi di previdenza sociale o protezione legislativa. Ad ogni stato indiano è affidata la gestione dei servizi sanitari. Uno dei problemi della sanità è dovuto alla mancanza di servizi igienici adeguati, secondo un’indagine effettuata nel 2008 dall'UNICEF solo il 31% della popolazione può accedere a strutture sanitarie adeguate, infatti una morte su 10 è causata dalla carenza di igiene; la diarrea cronica uccide una persona su 20. Nel 2006 la dissenteria ha causato almeno 450mila, dei quali l'88% erano bambini sotto i 5 anni. Inoltre le malattie causate dai servizi igienico-sanitari carenti possono incidere anche sullo sviluppo cognitivodei bambini; inoltre la contaminazione del Gange, dovuta dal rilascio di rifiuti umani organici, provoca la diffusione di malattie contagiose come ad esempio il colera.
  

Fonti

giovedì 16 aprile 2015

Putin - Tsipras: l'uscita della Grecia dall'eurozona e un'alleanza con la Russia sempre più vicine, l'egemonia di Mosca si espande verso il Mediterraneo

Lo ribadisco: se la situazione non migliora, la Grecia andrà in default e uscirà dall'eurozona. E si aggancerà a Putin, l'economia e la nuova moneta saranno legate alla Russia. Non è un caso che oggi Tsipras e Putin abbiano siglato un accordo per la costruzione di un gasdotto che, dalla Turchia, arriverà ad Atene. E qui si potrebbe arrestare l'avanzata dell'Unione Europea, foraggiata dall'America, che mira all'Ucraina e alle sue risorse industriali (per chi ne volesse sapere di più, si informi sul Doneskt e sull'industrializzazione nell'URSS durante gli anni della guerra fredda), non potrebbe più esercitare pressioni per far entrare l'Ucraina nell'Unione con il rischio di ritrovarsi i gasdotti (che guarda caso passano in Ucraina, ma che coincidenza!) chiusi mentre quello di Atene resterebbe aperto. Di certo una Grecia con la propria moneta e un gasdotto sul proprio territorio starebbe meglio economicamente, gli stati dell'UE sarebbero costretti ad acquistare il gas proprio da Atene, da un paese che prima era nell'eurozona.

E c'è da dire un'altra cosa: Putin con questo assist alla Grecia ci ha guadagnato molto: appare come il possibile salvatore di un paese messo in ginocchio dalla troika (ora io non credo che a Putin sia molto interessato al popolo greco, ma chi non approfitterebbe di una tale situazione per riportare in auge la Russia?)e tra l'altro ne ha fornito un altro: quando la Merkel si è rifiutata di pagare i danni della seconda guerra mondiale alla Grecia, richiesta avanzata da Tsipras stesso un paio di mesi fa, è intervenuto anche lui ricordando che la Germania deve ripagare i danni guerra anche a Mosca, una cifra vicina ai 600 miliardi di dollari. Sono stati due ottimi assist e un'ottima mossa per avere un alleato in più, come Lukashenko con la Bielorussia, uno dei primi paesi che ha firmato la CSI (Comunità di Stati Indipendenti, Содружество Независимых Государств in russo). Inoltre, facendo leva sull'identità russofona in Crimea e nel Donec'k, sta ristabilendo l'egemonia che aveva Mosca con l'URSS (almeno in parte) e ha fermato non solo l'UE ma anche gli americani che pensano di installare le loro basi sul territorio ucraino dopo l'adesione di Kyev all'Unione Europea.

Se prendete una carta geografica dell'Europa aggiornata noterete che l'espansione russa è, metaforicamente parlando, una "lingua" che si sta prendendo i territori russofoni (oltre alla Crimea e al Donec'k ci sono anche la Transnistria in Moldavia, l'Ossezia del Sud e l'Abkazia in Georgia) e mira a espandere la propria influenza sul Mediterraneo. Secondo il principio dell'identità russofona, se parli russo allora sei russo/a, sei legato da molto tempo a Mosca e dubito che chi si sente così non accetterebbe di vivere in territori membri dell'UE e della NATO con i missili puntati su Mosca. L'Ucraina e la Grecia rappresentano due fronti di guerra: una combattuta sul campo con le armi (Ucraina) e l'altra combattuta sul fronte economico (Grecia), ma in entrambi i casi hanno messo in ginocchio due paesi, riducendo allo stremo i popoli.

giovedì 2 aprile 2015

Linea Roma - Giardinetti: potenziale linea metropolitana leggera di superficie

Nel 1916 veniva inaugurata una linea ferroviaria che collegava Roma a Frosinone, passando per Fiuggi, una linea ancor oggi attiva ma con il tracciato ridotto drasticamente nel corso degli anni: la Roma - Giardinetti.

Si tratta di una ferrovia a scartamento ridotto a 950 mm, ossia lo scartamento dei binari di reti ferroviarie inferiore ad uno scartamento normale (per approfondire guardate qui http://it.wikipedia.org/wiki/Scartamento_ridotto http://it.wikipedia.org/wiki/Scartamento_ferroviario#scartamento_ordinario), che fa capolinea dalle parti di Giardinetti, una zona situata a ridosso del Grande Raccordo Anulare dalle parti di Roma sud-est e segue il tracciato della Casilina. Ma in passato il capolinea era Pantano, ora parte della nuova ma costosissima Linea C, e prima che la tratta extra-urbana morisse aveva altri due capolinea a Frascati e Frosinone stessa. Dal 1986, anno della soppressione della tratta Pantano - San Cesareo, la linea venne ribattezzata Roma - Pantano e, con i lavori della Linea C che coinvolgevano il tratto Pantano - Giardinetti, dal 2006 assunse l'attuale nome.

Ora con l'entrata in servizio della Linea C (da novembre 2014) è stata messa in discussione l'utilità della Roma - Giardinetti poichè il tracciato Centocelle - Giardinetti "ricalca" quello della terza linea metropolitana e le due linee rischiano di "cannibalizzarsi" a vicenda per quanto riguarda il carico di passeggeri. Così la giunta romana, in un primo momento, ha preso in considerazione di chiudere la linea, a favore della Linea C: da qui ad un anno la ferrivia verrà ceduta al Comune di Roma dalla Regione Lazio e, in mancanza di fondi per la manutenzione, il presonale sarebbe stato riutilizzato per la Linea C, la linea smantellata e il parco treni esposto al museo dell'ATAC. Ma grazie ad una petizione online di change.org voluta dagli abitanti stessi della Casilina la linea si è salvata e si è evitato lo stesso errore compiuto nel 1980 con la chiusura della linea tramviaria Termini - Cinecittà a favore della Linea A. Siamo nel 2015 e ancora rischiamo di creare il "paradosso dell'auto", un problema che ha devastato una delle più grandi reti tranviarie del mondo a favore del trasporto su gomma e che ha creato solo che problemi e disagi, primo fra tutti il traffico. Ora un'eventuale chiusura della storica linea, che tra l'altro ha quasi 100 anni (!), potrebbe solo che creare ulteriori problemi a chi abita dalle parti della Casilina fino a Centocelle, la gente si troverebbe strade intasate da automobili e smog a più non posso. E in caso di sostituzione non avevano le idee chiare: si parlava di allargamento della Via Casilina, con corsie preferenziali per i bus. Anche i numero di passeggeri trasportati parla chiaro: mentre la Linea C ne trasporta poche centinaia per ora, la Roma - Giardinetti ne trasporta oltre 9600 per ora... un dato superiore persino alla linea tram N°8

Ebbene sono anni che a Roma si parla della famosa "cura del ferro", ossia il ripristino, in parte, della gloriosa rete tranviaria di Roma, accompagnato dall'attivazione dell'Anello Ferroviario, mai completato e realizato SOLO in parte e usato per pochi giorni in occasione dei mondiali del 1990. Ora il sindaco Marino ha dei progetti di certo ambiziosi, peccato che per il momento non sono stati realizzati (La linea Tram n° 1 Termini - Trastevere, il Tram della musica che deve collegare Piazza Risorgimento con Piazza Mancini passando per l'Auditorium e il Quartiere Parioli, infine è previsto il ripristino del tracciato Trastevere - Piazzale Ostiense della linea tram N° 3 atteso dal 2004...), ma deve tener conto dell'utilità e del potenziale della Linea Roma - Giardinetti, l'ultimo tramvetto attivo nella capitale che può diventare una linea metropolitana leggera di superficie.

Recentemente l'assessore alla mobilità capitolina Guido Improta ha smentito le "voci" che davano per morta la Roma - Giardinetti (guarda caso dopo che la petizione di change.org ha raggiunto le 605 firme necessarie per salvarla...) affermando invece che sarà riconvertita in linea tramviaria e devierà sulla Palmiro Togliatti per raggiungere Tor Vergata. è di certo una buona notizia, ma la modifica al tracciato non mi convince: significa allargare la Casilina da Giardinetti a Centocelle, smantellando ancora lo storico tracciato, evitando così una "sovrapposizione" con la Linea C. Se andiamo a guardare le altre linee metropolitane del mondo noteremo che alcune di esse hanno in comune lo stesso tracciato e nessuna risente l'eventuale carenza di passeggeri: è il caso della Metropolitana di Newcastle Upon Tyne o di Valencia, ma anche qua a Roma c'è un caso simile: la Roma - Lido (futura Linea E ?) con la Linea B, oppure  le linee tram N° 19, 14 e 5.

Ora cosa si può fare per il futuro della Roma - Giardinetti? Innanzitutto è necessario rinnovare i convogli, perchè la gran parte di essi supera gli 80 anni di età e i pezzi di ricambio non sono più prodotti da molti anni. E anche le Stazioni necessitano di un restauro. Per quanto riguarda gli eventuali prolungamenti, sul sito iBinari CityRailways ci sta un dossier dedicato alla linea, dove si propone di prolungare il tracciato della linea e "fonderlo" con quello della futura linea metropolitana leggera che collegherà Anagnina (Metro A) con Tor Vergata e Torre Angela (Metro C). Tra l'altro si propone di attestare l'altro capolinea a Ojetti partendo da Porta Maggiore, passando per Tiburtina (Metro B) e Viale Jonio (Metro B1) eliminando di fatto quello a Laziali che sta a ridosso della Stazione Termini... personalmente trovo che l'idea di eliminare il capolinea di Laziali non sia una buona idea, a parere mio l'interscambio di Termini è fondamentale, poichè collega la Casilina alla stazione centrale. L'idea migliore è di prolungare il capolinea davanti la stazione stessa, a pochi metri dal capolinea delle linee tram N° 5 e 14, in modo tale che possa fungere da interscambio. Qui ci sta il link per poter approfondire http://www.cityrailways.net/studi-e-tecnica/2014/12/2/e-se-la-ex-roma-pantano-diventasse-la-metro-g.html

In conclusione, la Roma - Giardinetti può essere una potenziale linea metropolitana che colleghi tre punti strategici per il trasporto romano (Termini, Tor Vergata e Anagnina) e, perchè no, anche l'aereoporto di Ciampino in futuro per un altro eventuale prolungamento.

venerdì 6 marzo 2015

L’IDENTITÀ RUSSOFONA NELLA CRISI DELL’UCRAINA

L’etimologia del toponimo Ucraina ( u okraina, ‘vicino al limite’ ) è quasi sinonimo della storia tormentata e complessa di questa terra di frontiera, da sempre confine tra Est ed Ovest, che in questi mesi  è al centro di un nuovo conflitto per il controllo del confine mobile tra lo spazio russo e quello europeo.

L’analisi degli interessi economici, geopolitici e strategici dei principali protagonisti  in gioco (Stati Uniti, Russia ed Unione Europea) che sembrano tornati alla politica di potenza del XX secolo, serve a  disegnare un quadro della crisi ucraina e dei suoi possibili sviluppi, ma secondo me sarebbe incompleta se non si desse la giusta importanza alla questione della lingua e dell’identità russofona che in questa terra senza unità effettiva (una sorta di intermezzo, come dice Wilson nel suo libro “The Ucranians, an unexpected nation”) è l’invisibile ma netto confine interno intorno al quale Putin  ha organizzato la sua strategia dopo il colpo di stato a Kiev e la fuga del presidente filorusso Viktor Yanukovich.
In Ucraina la lingua ha implicazioni  geopolitiche, sociali  ed economiche dietro le quali si intravvedono i legami con l’eredità sovietica e tutte le questioni legate all’identità nazionale, comprese le simpatie filoeuropeiste alimentate dall’occidente dopo il 1991, anno in cui il paese ha ottenuto un’indipendenza stabile e duratura dopo secoli di subordinazione ad altri stati.

Le radici della crisi ucraina sono nel legame tra la definizione di un’identità nazionale e la determinazione di una lingua ufficiale di uno Stato. L’ucraino è la lingua di Stato, anche se il paese è in realtà bilingue, poichè il 30% della popolazione (cioè la minoranza più consistente tra quelle riconosciute dalla Costituzione) parla il russo come propria madrelingua. La divisione è antica e conferisce al problema etnico-linguistico almeno tre aspetti: geografico, culturale e storico.

L’aspetto geografico riguarda le due regioni in cui il fiume Dnepr divide il territorio: l'ucraino prevale nelle aree rurali occidentali a minore densità di  popolazione, il russo in quelle industrializzate centrali, meridionali e orientali, nelle città e soprattutto in Crimea. 
Grazie all’eredità sovietica, la popolazione ucrainofona conosce bene il russo, ma non sempre avviene il contrario; un’indagine effettuata nel 2004 dall’Istituto di Sociologia di Kiev ha rilevato che il russo è parlato a casa dal 43–46% della popolazione e domina la comunicazione informale nella capitale Kiev; ciò significa che esso è prevalente rispetto alla lingua nazionale ucraina, ma è quest’ultima ad essere tutelata come ‘fattore di originalità della nazione’.

Anche le questioni politiche seguono schemi territoriali, oltre a quelli economici, linguistici ed ideologici: infatti ad est prevalgono i partiti filorussi come quello dell’ex presidente  Yanukovich, ad ovest quelli filo-occidentali  come il Blocco Julija Tymošenko.
L’aspetto culturale è legato all' idea di identità nazionale ucraina, e contrappone due concezioni: una valorizza la lingua e la cultura ucraina in contrapposizione a quella portata dall’invasore russo, l’altra privilegia il carattere slavo unificante della storia e della cultura di entrambi i popoli. Con l’ovvia conseguenza di considerare nel primo caso come indesiderato il vicino russo e desiderabile l’Europa, nel secondo caso l’esatto contrario.

Lo storico Victor Horodyanenko  dice che ‘la comunità socio-culturale russa è caratterizzata da un’informale integrità ed appare come soggetto indipendente del comportamento sociale. Le caratteristiche di base sono l’etnia, la residenza, l’integrità della madrelingua fra i russi, legami stretti tra i russi in Ucraina con il loro gruppo etnico, le autentiche tradizioni nazionali e la cultura spirituale russa, e l’adesione ad un'unica fede (Ortodossa)’.

La religione è in effetti un’altro elemento molto importante per l’identità dell’Ucraina, dove dal 1596 era presente la chiesa greco-cattolica di rito bizantino, cancellata dall’annessione all’URSS; Stalin confiscò tutte le sue proprietà e impose la religione ortodossa, e la chiesa cattolica fu costretta alla  clandestinità fino alla  Perestrojka,  ma da allora un’altro motivo di conflitto tra ucraini cattolici e russi ortodossi è la questione della restituzione del suo patrimonio.

E’ evidente che, come dice Huntington nel libro  ‘Clash of civilizations’, ‘la linea di faglia tra civiltà occidentale e civiltà ortodossa attraversa il cuore del paese, e così è stato per secoli’. è che ‘l’Ucraina è un paese diviso, patria di due distinte culture: quella occidentale e cattolica di lingua ucraina e quella orientale e ortodossa di lingua russa’.

A ciò si aggiunge che, dopo il crollo dell'URSS, in alcuni stati dell’ex blocco sovietico come l’Ucraina è cresciuto un tipo di nazionalismo rivolto all’interno, per cui si fanno propri i problemi delle minoranze, mentre la Federazione Russa ha un nazionalismo rivolto anche all’esterno, e pretende di tutelare la nazionalità etnica russa anche al di fuori dei confini politici.

Per quanto riguarda l’aspetto storico, l’Ucraina è il luogo d’origine della lingua russa: basti pensare che il primo Stato russo fu il Rus’ di Kiev, sorto nell’842 d.C., la cui lingua era l’antico slavo orientale. Dopo la sottomissione all’impero mongolo nel 1420 e la spartizione dei suoi territori fra il Granducato di Lituania e Moscovia, in ciascuno dei due stati si formò una lingua: il ruteno ad occidente ed il russo medioevale ad oriente.

Il principato di Mosca cominciò la sua espansione nel 1301, mentre la "russificazione" dell’Ucraina è cominciata nell'anno 1654 ed è stata molto forte, raggiungendo  la sua massima espansione con la dinastia dei Romanov. Le regioni orientali hanno avuto secoli di appartenenza all’impero russo, mentre le regioni occidentali, dove oggi è più forte il nazionalismo ucraino, erano incluse in altri stati (Impero Austro-Ungarico, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania) e sono entrate a far parte dell’URSS  dopo la seconda guerra mondiale.

Nel XX secolo la lingua russa, considerata mezzo di propaganda ideologica dello stato sovietico, era insegnata a scuola come lingua ufficiale della nazione, ma mentre Lenin riconosceva le varie nazionalità all’interno dei confini sovietici, Stalin non fu altrettanto tollerante, ed arrivò a deportare interi gruppi etnici. Non meraviglia quindi che quando nel 1991 divenne indipendente, pur rispettando le varie etnicità, l’Ucraina abbia stabilito in Costituzione che  il russo e le altre lingue minoritarie ‘possono’ svilupparsi liberamente, mentre l'ucraino, che nell’Impero Russo e nell’Unione Sovietica era considerato una lingua di livello inferiore, essendo la  lingua ufficiale  ‘deve’ essere promosso e  tutelato dallo Stato.
La contrapposizione tra ucrainofoni e russofoni si è riproposta in molte occasioni, come la lite sul decreto ispirato da Yanukovich e discusso nel 2012 per consentire l’utilizzo del russo accanto all’ucraino nelle questioni ufficiali se almeno il 10% della popolazione è russofona (è il caso di Kiev, Sebastopoli, la Crimea e altre dieci regioni).

Il rapporto tra lingua e identità  è talmente evidente da rendere azzardata l’ idea che la condivisone di una lingua comune possa unire etnia e popolazione e realizzare l’unità di uno Stato nazionale; infatti anche in Ucraina gli opposti sentimenti filorussi ed europeisti si innestano sul substrato linguistico, tanto che  Putin ha potuto usare a proprio vantaggio l’identità russofona ( ‘se parli russo, sei russo’) come qualcosa di molto più forte dell’invio di truppe sul territorio, e per giunta  senza rischiare sanzioni economiche da parte dell’occidente.

Se quella di Mosca non è ingerenza nelle questioni di uno Stato confinante, nè una mira espansionistica,  ma un doveroso atto di difesa  per ‘la situazione straordinaria in Ucraina e la minaccia alla vita dei cittadini russi  ed alla flotta del Mar Nero ancorata a Sebastopoli’, allora Putin, accusato di avere aggredito l’Ucraina, può a sua volta  accusare  l’occidente di aver sostenuto un colpo di Stato in chiave anti-russa (con la conseguente caduta del governo di Yanukovich e la Rivolta di Kiev); ne sarebbe prova il  fatto che il primo provvedimento emanato dal governo provvisorio è stato l’abolizione della lingua russa come lingua regionale per le minoranze, con la conseguente discriminazione dei cittadini russofoni, ai quali l’occidente non  riconoscerebbe lo stesso diritto all’autodeterminazione riconosciuto all’ex Jugoslavia.

Il 18 marzo 2014, Putin ha potuto affermare che la Crimea è russa perchè così si sente da sempre la sua popolazione, che parla tre lingue nazionali (ucraino, tataro e russo) e fu annessa all’Ucraina nel 1954 da Krusciov, senza considerazioni etniche e violando la costituzione sovietica in vigore, solo perchè allora l’Ucraina faceva parte del blocco sovietico ed una sua separazione era impensabile.

Guardando all’atteggiamento di Putin nella questione ucraina, si deve quindi tener presente il profondo legame tra russi e ucraini, uniti da legami di parentela,  storia e cultura tanto che perfino dopo il 1991 hanno continuato a muoversi liberamente tra i confini dei due paesi, e ad avere legami di cooperazione economica e scientifica perfino in campo aerospaziale.

Mosca considera un’ingerenza l’intervento dell’Europa nelle questioni interne ucraine e tuona contro le recenti azioni del governo di Kiev contro i ‘terroristi’ filorussi nell'Est del paese definendo l’intervento  un’atto criminale che viola la Convenzione di Ginevra, perchè i militari governativi ucraini  hanno colpito volontariamente i civili con elicotteri, blindati e armi pesanti, e perfino i proibiti proiettili a frammentazione. Quindi Putin non arretra dalla sua posizione perchè’ ‘una Russia debole, influenzabile dalla situazione in prossimità dei suoi confini, che si ritira sotto la pressione dell’Occidente’ non è nemmeno lontanamente ipotizzabile. Se poi un domani l’Ucraina dovesse aderire alla NATO, seguirebbe l’esempio della Polonia, e diventerebbe un alleato importante per gli Stati Uniti, ma quel che è peggio ospiterebbe basi militari americane proprio al confine con la Russia, perdendo così la sua funzione di Stato cuscinetto che dalla fine della guerra fredda ha conservato gli equilibri tra Mosca e lo spazio euroatlantico.

 Il sentimento di appartenenza è così forte anche da parte degli ucraini filorussi, che Mosca non  è percepita come una minaccia  ma come la salvezza dai ribelli delle regioni Sud-orientali che desiderano l’adesione alla Russia come è accaduto alla Crimea.
Queste rivendicazioni dei russofoni hanno aggiunto un tassello identitario alla situazione geopolitica, costringendo l’occidente a non sottovalutare, come nel caso dell’ex Jugoslavia, la forza disgregante delle etnie e delle identità ignorate all’interno dei confini di una nazione.
Quale sarà l’evoluzione del conflitto?

Per il momento il paese è dilaniato da una guerra civile che interessa soprattutto la parte orientale del Donbass, dove i separatisti russofoni sono contrari a una futura adesione di Kiev all’Unione Europea, all’ingresso nella NATO ma sopratutto non sono d’accordo a spezzare i rapporti storico-culturali e  identitari con la Russia e a vivere in uno Stato filoamericano, perchè l’attuale governo di Kiev non è nato da  legittime elezioni ma ha preso il potere dopo gli eventi di Euromaidan, con il sostegno da parte di politici europei e nordamericani.

A differenza di quanto fatto con la Crimea, però, il Cremlino ha deciso di non intervenire direttamente, auspicando la risoluzione della crisi attraverso il dialogo, perchè, dopo aver salvaguardato i suoi interessi strategici ed economici in Crimea, il suo obiettivo è la federalizzazione dell’Ucraina. Ma i separatisti, che hanno issato la bandiera dell’ex URSS accanto alle bandiere della regione e al tricolore russo, insistono nel tentativo di unirsi a Mosca non solo perchè sentono ancora di far parte della Russia nonostante vivano in un’altra nazione, ma anche perchè temono che l’entrata dell’Ucraina nell’Unione Europea li costringerebbe ad affrontare una crisi economica senza precedenti, la chiusura delle fabbriche e la privatizzazione di molte aziende (il Donbass è famoso per la sua industrializzazione risalente ai tempi dell’Unione Sovietica e per le tante miniere di carbone).
La  crisi ucraina è stata al centro del viaggio in Europa di Obama, determinato ad isolare politicamente la Russia. Gli Stati Uniti stanno cercando di espandere il loro predominio in Europa, e lo fanno anche sostenendo  un allontanamento dell’Ucraina dalla sfera d’influenza della Russia grazie al suo passaggio nell’Unione Europea.

La strada della diplomazia è d’obbligo in una situazione come quella dell’Ucraina, potenzialmente molto pericolosa e sintomatica del peggioramento  dei rapporti tra Mosca e Washington.

Secondo molti repubblicani e conservatori americani, Obama ha gestito debolmente l’affaire Snowden, la crisi della Siria e l’attrito per l’allargamento della Nato all’Europa orientale. Un’ulteriore successo della diplomazia di Putin andrebbe contro gli interessi statunitensi sulle risorse petrolifere e di gas naturale nell’Asia centrale, senza contare le conseguenze sulla questione del nucleare iraniano (ingestibile senza l’appoggio di Putin), l’importantissimo problema del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan (per il quale servono le vie di comunicazione russe), e il volume  di affari con Mosca, enormemente cresciuto negli ultimi anni.

Per quanto riguarda la Russia, dopo il Summit di Vilnius è stato chiaro che cercherà di ostacolare l’espansione europea ed americana con tutti i mezzi a sua  disposizione, a cominciare dalla dipendenza dal gas russo dei paesi del Partenariato orientale, di cui è membro la stessa Ucraina. L’Europa potrebbe ridurre la sua dipendenza dal gas russo accettando di acquistare lo shale gas offerto da Obama, ma non si sa quanto tempo ci vorrebbe per disporre delle infrastrutture necessarie al trasferimento oltreoceano.



L’Europa sembra assente dallo scenario geopolitico, inadeguata a gestire  la situazione dell’Ucraina, che attraverso l’adesione all’Unione Europea perseguiva lo scopo economico e politico di riequilibrare il suo deficit commerciale accumuato dal 1991 e trattare su un piano di parità con la Russia, suo principale fornitore di energia e suo primo partner commerciale.
Il protrarsi del conflitto civile potrebbe quindi portare al collasso dell’industria ucraina, indebolendo il complesso militare-industriale russo senza apparenti vantaggi per gli oppositori di Mosca, e costringerebbe l’Ucraina a contrarre prestiti onerosi con l’Europa, la quale sembra meno interessata alla sua alta tecnologia che alle sue fertili terre, e corre piuttosto il rischio di doversi impegnare comunque in un lungo sforzo per far uscire l’Ucraina dal suo attuale baratro economico.

In tutti questi discorsi la sovranità nazionale ucraina sembra contare poco, tanto che si ventila l’ipotesi di dividere in futuro il paese in una zona orientale e costiera annessa alla Russia, e in una zona centrale e occidentale filoeuropea ed americana che entrerà a far parte dell’Unione Europea. Se questo dovesse avvenire, Mosca recupererebbe parte dei territori perduti con la dissoluzione dell’URSS, estenderebbe la sua area di influenza politica  e riacquisterebbe potere sullo scenario mondiale, europeo e locale, perchè da un punto di vista energetico l’Ucraina dipende dalla Russia.

Tra le minacce di Putin di puntare i missili russi su Kiev nel caso l’Ucraina entri a far parte della Nato, e la risposta della Nato di voler rafforzare la difese nell’Europa dell’Est, il vero rischio per l’Europa è che questa crisi si allarghi anche ad altri paesi dove sono presenti grandi comunità russofone, come ad esempio la Transnistria nella Moldavia. Non a caso Putin gioca la carta dell’irredentismo russo basato sulla lingua per ristabilire l’egemonia della Russia su quella parte dell’Europa centro-orientale che  Mosca continua a considerare sua.