giovedì 17 novembre 2016

Il Corso: lingua o dialetto?

Nel corso dei secoli si sono succeduti in Corsica tanti popoli: Greci, Etruschi, Cartaginesi, Romani, Pisani, Genovesi e da oltre duecento anni i Francesi. Dominata per sette secoli da Roma, 240 anni dalla Repubblica di Pisa e da Genova dal 1295 fino al dominio Napoleonico, dal 19° secolo l’isola è territorio francese, anche se il Nazionalismo Corso non ha mai smesso di lottare per l’indipendenza dell’isola e nonostante si sia un pò affievolito, potrebbe rinvigorirsi grazie ai recenti tentativi dei popoli Scozzesi e Catalani di staccarsi rispettivamente da Regno Unito e dalla Spagna. Pur essendo territorio francese, geograficamente parlando è un’isola italiana. E se formalmente la lingua ufficiale è il Francese, per loro lo è quella Corsa (corsu), anch’essa italiana, appartenente al gruppo Toscano. Ma si può considerare una lingua alla pari del Sardo e del Friulano? Oppure è semplicemente un dialetto? Formalmente si tratta di un dialetto, non rientrando tra le prime 100 lingue al mondo a causa del basso numero di locutori, ma per i Corsi è la loro lingua ufficiale, è parte della loro identità, della loro storia e della loro cultura. Andiamo a scoprirla insieme.
La diffusione geografica della lingua Corsa

Non sappiamo molto a proposito del sostrato linguistico prelatino degli antichi abitanti della Corsica pre-romana, ma conosciamo alcune radici rimaste nei toponimi e nel lessico (KAL/KAR: Calanca, Calacuccia; KOR: Corsica, Corte; KUK: Calacuccia, TAL/TAR: Taravo, Tallano; TEP: teppa; TAV: Tavignano, Tavera). Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente cominciò la formazione dei primi volgari in Corsica con caratteristiche linguistiche di tipo conservativo, di cui è rimasto un retaggio nelle parlate della zona meridionale dell'isola. Dall’XI secolo la situazione cambiò fortemente, soprattutto nella parte nord dell'isola dal contatto diretto con i dialetti toscani di tipo pisano e anche a seguito dai tentativi di ripopolamento effettuati dai dominatori Pisani. Dal XIII al XVIII secolo i Pisani vennero sostituiti dai Genovesi, i quali insediano interi borghi di lingua Ligure come Bonifacio e Calvi, ma mantennero l'utilizzo del toscano illustre come lingua scritta e di cultura, nonostante avessero introdotto un notevole influsso genovese nei dialetti locali; ciò spiega il motivo per cui l'unica lingua utilizzata nelle comunicazioni scritte è stata l'italiano e ancor prima di esso il latino. Nel XIV e XV secolo comunque diversi atti e testi redatti apparentemente in volgare toscano da personalità e scrittori còrsi rivelano in realtà la situazione linguistica dell'isola nel periodo: si vedano i Cartolari della diocesi del Nebbio della metà del XIV secolo in dialetto Toscano corsicizzato. Sono degne di nota le opere scritte in volgare còrso: Deposizione del rettore della chiesa di San Nicolò di Spano di Iohanni Provintiale del 1400, uno dei più antichi testi Corsi, la Lettera ai protettori delle compere del Banco di San Giorgio del vescovo di Ajaccio Jacopo Mancoso del 1480, la Lettera di prete Polino da Mela ai protettori del Banco di San Giorgio del 1489 e Lettera dall'esilio di Giovanpaolo Leca, conte di Cinarca, ai figli del 1506. Dopo l'annessione francese del 1789 è il francese a venire adottato come lingua ufficiale soppiantando l'italiano verso la fine del secolo. Il Còrso è sempre stato trasmesso oralmente e la codificazione scritta avvenne solo in epoca recente e risente inizialmente del forte influsso italiano e francese. Il primo testo pubblicato in còrso sono le strofe di U sirinatu di Scappinu nel testo Dionomachia (1817) di Salvatore Viale (1787-1861). A partire dalla seconda metà del XIX secolo si susseguirono le opere del vescovo di Ajaccio Paul-Matthieu del La Foata (Poesie giocose, in lingua vernacola della Pieve d'Ornano), le Cummediôle di Petru Lucciana(1832-1909) tra cui In campagna, cummediôla in 2 atti, Francesco Domenico Falcucci con il Vocabolario dei dialetti della Corsica (pubblicato postumo solo nel 1915 e che introduce i gruppi ghj e chj a indicare le sonorità caratteristiche delle parlate còrse) e Santu Casanova (1850-1936) con la rivista A Tramuntana (1896-1914). Sorse il problema della normalizzazione dell'ortografia della lingua scritta che occupò i linguisti còrsi per tutto il XX secolo. All'inizio del secolo le pubblicazioni periodiche A muvra (1920-39) e L'annu corsu (1923-36) poi rinominata L'Année Corse(1937-39) e dopo la metà del Novecento U Muntese (1955-72). Tra gli scrittori che hanno contribuito alla normalizzazione del còrso scritto abbiamo Pascal Marchetti (1925-), l’autore di Intricciate e cambiarine, del manuale di lingua corsa Le corse sans peine/U corsu senza straziu e del dizionario còrso-francese-italiano L'usu corsu. Il 17 maggio del 2013 l'Assemblea della Corsica ha votato per la co-ufficialità del Còrso e del Francese , ma contro tale voto si è espresso il ministro degli interni Manuel Valls, affermando che "il Francese è la sola lingua ufficiale" e pertanto non esiste nessuna co-ufficialità tra Còrso e Francese nell'isola, rendendo la norma anticostituzionale dal Consiglio costituzionale; il presidente francese Francois Hollande, durante la visita per il 70º anniversario della liberazione dell'isola dai nazisti, vede la modifica della costituzione per la co-ufficialità un processo lungo, anche se non ha nascosto aperture future per cambiare la costituzione e rendere possibile il bilinguismo nelle varie regioni francesi. Di fatto viene riconosciuta come lingua solo in Italia con la Legge n.482/1999 e in Sardegna con la L.R. n.26/1997 .
Indicazioni in Còrso

In Francia viene classificata come una lingua autonoma nel gruppo delle lingue Neolatine, nel sottogruppo delle lingue italo-romanze ed è riconosciuta come lingua regionale della Repubblica Francese. Essendo strettamente imparentata con i dialetti italiani del gruppo centrale Toscano, tanto che ha conservato diverse caratteristiche dei dialetti medioevali toscani ancora parlati in Garfagnana e altra Versilia, presenta anche dei legami con la lingua Ligure, anche se in misura minore. il Còrso viene parlato da circa 90/100.000 locutori su 275.000 abitanti dell'isola, molti di questi ultimi sono di madrelingua Francese, ai quali si aggiungono le popolazioni emigrate nelle altre regioni della Francia per un totale di 133.000 individui, nonché in altre nazioni, quali ad esempio i Galluresi il cui numero di locutori stimati ammonta a circa 80.000 unità, sui circa 120.000 abitanti della Gallura. Secondo un censimento dell'aprile del 2013 la lingua Còrsa in Corsica ha un numero di locutori tra 86.800 e 130.200 su 309.693 abitanti, la fascia di popolazione che ha un livello buono di conoscenza della lingua oscilla tra un minimo del 25% nella fascia d'età tra i 25 e i 34 e il massimo del 65% nella fascia d'età oltre i 65 anni; quasi un quarto della popolazione tra i 25 e i 34 non capisce il corso mentre solo una ristrettissima minoranza di anziani non capisce il còrso, il 32% della popolazione della zona settentrionale lo parla abbastanza bene, come anche il 22% della popolazione della Corsica del Sud, mentre il 10% della popolazione della Corsica parla solo francese. Il 62% parla sia francese che còrso, invece solo l'8% dei còrsi sa scrivere correttamente in lingua corsa mentre circa il 60% della popolazione non sa scrivere in còrso, il 90% della popolazione còrsa è favorevole a un bilinguismo còrso-francese, il 3% vorrebbe che il còrso fosse l'unica lingua ufficiale in Còrsica e il 7% solo il francese.

Le varianti linguistiche del Còrso

Il Còrso presenta una certa omogeneità ma si suddivide in due varianti, seguendo la catena centrale dei monti e in funzione della conformazione geografica dell'isola, con una dividente che passa lungo la linea che unisce Ajaccio e Calcatoggio, a nord di Bocognano, Col de Vizzanova, a sud di Ghisoni sul Col de Verde e a sud di Ghisonaccia. il Còrso del Nord o Cismontano (cismontincu o supranu o supranacciu) costituisce la variante più diffusa e standardizzata dell’isola, viene parlato nella zona nordoccidentale nei distretti di Bastia (Bastia) e Corte (Corti) e potrebbe rientrare tra i dialetti toscani, essendo la parlata più vicina all'italiano standard rispetto a qualunque dialetto italiano. Ai margini della dividente vi è una zona transizione con alcune caratteristiche assimilabili a ciascuno dei gruppi, nonché per altre particolarità locali. Sono di transizione tra i dialetti Cismontani quelli della zona tra Piana a Calcatoggio e della Cinarca con Vizzavona (che presentano ad esempio esito verbale in chjamarìa come al sud), Fiumorbo tra Ghisonaccia e Ghisoni (fiumorbacciu, che presenta la cacuminale) e tra quelli pomontinchi l'aiaccino, in aggiunta ai dialetti della Gravona (che nella parte meridionale sono spiccatamente pomontinco), il bastelicaccio (che sarebbe pomontinco ma presenta alcune particolarità con il suo tipico rotacismo: Basterga) e il dialetto di Solenzara. Il Còrso del Sud, detto Oltramontano (pumontincu o suttanu o suttanacciu), è la variante più arcaica e conservativa, parlata nei distretti di Sartena (Sarté) e Porto-Vecchio (Porti-Vechju), analogo al Sardo, conserva la distinzione delle vocali brevi latine ĭ e ŭ (es. pilu, bucca) oltre ad avere suoni cacuminali in -ll→-dd- [es. aceddu (uccello), beddu (bello),quiddu (quello), ziteddu (ragazzo)]. La lingua parlata ad Ajaccio (Aiacciu) presenta caratteristiche di transizione, mentre sono pomontinchi i dialetti del Taravese (Taravesu), del Sartenese (Sartinesu), dell'Alta Rocca (Rucchisgianu) e della regione meridionale tra Porto Vecchio (Portivechjacciu) e l'entroterra di Bonifacio. Al di fuori della Corsica, nel nord della Sardegna, si parlano anche dei dialetti risultato di una transizione corso-sardo: il Maddalenino (parlato esclusivamente nell'isola della Maddalena) presenta affinità con i dialetti di Bonifacio e Porto Vecchio in aggiunta a una influenza genovese; il Gallurese (parlato nella zona di Tempio Pausania in Gallura) che è affine al Corso Oltramontano; il Sassarese ( parlato a Sassari, Porto Torres e Castelsardo) è accomunato nella struttura e grammatica al gallurese e al Corso Oltramontano anche se deriva dal Toscano del XII secolo e presenta diversi caratteri distintivi e autonomi; infine il Castellanese ( Parlato a Castelsardo, e come variante a Tergu e Sedini) rappresenta un esempio notevole di koinè che fonde insieme, elementi italoromanzi (Corsi, Toscani) con elementi galloromanzi (Liguri-Genovesi) e Sardi in seguito all'arrivo di genti Corse, Liguri, Toscane e Sarde che hanno costituito il gruppo etnico più variegato della città fondata dai Doria. Anche il dialetto della vicina isola di Capraia, ufficialmente estinto, presentava diversi punti di contatto col Còrso a causa della vicinanza geografica, storica e culturale fra le due isole; è anche la parlata nella zona occidentale dell’Isola d’Elba con caratteri simili , soprattutto nel circondario di Chiessi e Pomonte.

sabato 9 aprile 2016

Sulle tracce del Tram dei Castelli Romani

Dei binari riaffiorano dall’asfalto per poi inabissarsi nella terra, come se fossero le vestigia di una civiltà perduta da secoli, presso Vicolo dell’Acquedotto felice, incrocio tra Via Frascati e Via Tuscolana, zona sud-est di Roma nell’omonimo quartiere.  Si tratta dei binari dell’ormai defunta Tranvia dei Castelli Romani, una delle linee più importanti del Lazio, gestita dalla STEFER per oltre 70 anni. La linea collegava la Stazione Termini a Velletri, Frascati, Albano Laziale e Rocca di Papa, in un tracciato che si diramava in due tronconi proprio nei pressi dell’acquedotto romano, percorrendo ben oltre 70 Km, svolgendo un ruolo fondamentale nel trasporto urbano romano nel settore Appio-Tuscolano e nei centri abitati che allora non erano ancora “città satelliti” della capitale, in quanto la rete stradale faticava ancora ad affermarsi nei Colli Albani. A causa del crescente uso dell’automobile e delle linee bus, su cui l’Atac cominciò a puntare dagli anni ’50, la linea è stata chiusa gradualmente, tratta dopo tratta, fino alla completa dismissione, avvenuta nel 1980, a causa della nuova linea metropolitana di Roma, la Linea A. Una scelta priva di senso, la sovrapposizione con la linea A fu solo una scusa per chiuderla definitivamente, poichè le linee percorrevano delle  direttrici parallele e rischiavano di cannibalizzarsi a vicenda, un errore che si sta ripetendo con la Roma-Giardinetti, ora Termini-Centocelle e che rischia di chiudere definitivamente una linea che quest’anno compie 100 anni, oltre ad essere l’ultimo tranvetto del passato presente a Roma. Ma torniamo a noi.


Il tracciato della tranvia nel 1916, alla sua massima espansione.


L’inaugurazione della linea avvenne nel 1903, col servizio limitato a Via delle Cave, il capolinea era situato a piazza San Giovanni, per poi essere spostato nel 1905 a  via Giovanni Amendola (allora si chiamava via Principe Umberto), di fianco al Museo Nazionale Romano, a pochi metri dalla Stazione Termini. Nel 1906 vennero inaugurate, in nove mesi a partire da Febbraio, le tratte extraurbane, la Roma-Grottaferrata-Frascati,  la Grottaferrata-Genzano di Roma e la diramazione per Valle Oscura con una funicolare usata per poter collegare Rocca di Papa. La linea riscosse un grande successo e alla STEFER decisero di ampliare la  tranvia ad Albano, percorrendo la Via Appia, e prolungando la linea da Genzano a Velletri, cosa che avvenne rispettivamente nel 1912 e nel 1913. Con l'apertura per la diramazione di Lanuvio, avvenuta nel 1916, la rete dei Castelli raggiunse la sua massima estensione. 

Tram a due piano, di tipo “imperiale”.

Gli anni ’30 segnarono l’inizio del declinio della rete tranviaria romana e l’espansione urbana della capitale, ma grazie all’elettrificazione la linea tranviaria sopravvisse, forte del fatto che lungo la Via Appia  e Via Tuscolana Roma iniziò ad espandersi e il tratto urbano della linea cominciò ad assumere una maggiore importanza, tanto che venne raddoppiato il binario tra San Giovanni e Capannelle e venne sostituito il vecchio materiale rotabileper uno più moderno e con una maggiore capienza. A causa della seconda guerra mondiale tra il 1943 e il 1944 il traffico fu sospeso su quasi tutta la rete e la diramazione per Lanuvio venne danneggiata, motivo per cui non venne più ripristinata.
 Negli anni ‘50 il servizio urbano venne potenziato con il raddoppio del binario tra Colli Albani e Cinecittà nel 1953, ma è anche l’inizio del declino del traffico extraurbano, a causa della difficoltà a far convivere la circolazione veicolare nelle strette strade dei paesi dei Castelli. E progetti di modifiche alla rete furono scartati e iniziò l’epoca delle soppressioni. Nel 1954 venne chiuso la tratta Genzano-Velletri, la Grottaferrata-Frascati e la Marino-Albano e nove anni dopo, nel 1963, tocca alla tratta Cinecittà-Grottaferrata-Valle Vergine e Grottaferrata-Marino, seguite dalla funicolare di Rocca di Papa. Nel 1965 venne sopressa la tratta extraurbana tra Roma e Genzano, in contemporeanea al declinio delle tratte urbane: la linea subisce una deviazione dovuta alla costruzione della metropolitana Linea A, il cui percorso ricalca quello della tranvia. 

Capolinea del tram a Cinecittà.
Anche i binari presenti a Piazza Re di Roma e San Giovanni In vengono abbandonati, spostando così il percorso del tram a Via di Santa Croce in Gerusalemme e Via Monza. Cinque anni dopo, nel 1970, la linea venne spostata da via Tuscolana a Viale dei Consoli, a causa dei cantieri a cielo aperto della metropolitana, nonostante ciò la linea giocava ancora un ruolo fondamentale per il collegamento verso Termini, in quanto i lavori della metropolitana si stavano prolungando sempre di più, tanto che la STEFER, si vide costretta ad ampliare il parco rotabile anche con vetture usate. Con la confluenza della STEFER nell'ACOTRAL (Azienda COnsortile TRAsporti Laziali), avvenuta nel 1976, la linea continua ad effettuare il servizio fino al 15 febbraio 1980, data che segna la chiusura della tratta superstite Termini-Cinecittà e l’inaugurazione della nuova linea metropolitana.

L’ultima corsa della tranvia

I binari sono stati in gran parte smantellati, ma ci sono ancora dei tratti superstiti tra Manzoni e San Giovanni utilizzati ancor oggi dalla linea tram 3 e, cosa curiosa, un binario spunta dal nulla a pochi metri dall’Acquedotto Felice, in prossimità dell’incrocio Via Frascati-Via Tuscolana, a testimonianza della presenza della più importante rete tranviaria extraurbana del Lazio, di cui oggi solo le persone più anziane ricordano. Nella stazione della Linea A di Anagnina ci sta esposta la motrice extraurbana STEFER n. 82.


Il binario superstite, presso l’Acquedotto Felice, altezza dell’incrocio tra Via Frascati e Via Tuscolana.

La motrice STEFER n.82 presso la stazione di Anagnia.

La chiusura della linea tranviaria è stata giustificata dal fatto che la linea metropolitana ricalcava il tracciato dello storico tram e quindi le due linee rischiavano di cannibalizzarsi a vicenda. Per allora la scelta di sopprimere la linea dei Castelli Romani poteva avere una logica, in quanto una linea metropolitana è più veloce ed efficente di un tram e trasporta più passeggeri. E Roma era ancora vivibile, libera dal traffico che quotidianamente coinvolge centinaia, se non migliaia, di cittadini che preferiscono usare la macchina, nonostante la presenza della linea metropolitana. Vista con l’ottica attuale, quindi, chiudere la linea tranviaria non ha avuto risultati positivi. Quindi perchè non ripristinare la linea? Magari per qualcuno non avrà senso, giustificando, ancora una volta, che due linee non possono coesistere. È vero, sono due linee molto diverse tra loro, ma è bene ricordare che a Roma ci sono tratti che tram e linea metropolitana condividono senza problemi, tra Colosseo e Piramide (Linea B – Tram 3), quindi la “cannibalizzazione” a vicenda non ha motivo di esistere. E negli ultimi anni la popolazione di Roma è aumentata, entro il 2025 avrà raggiunto i 3 milioni di residenti, e anche le automobili aumenteranno, crisi permettendo, e con esse aumenterà lo smog e il traffico sarà ancora più insostenibile di quanto lo sia oggi. 






Parte del vecchio tracciato da recuperare.

Si potrebbe,quindi, recuperare l’antico tracciato e riportare il tram lungo Via Tuscolana, attestandolo a Cinecittà e, perchè no, ripristinare anche il tracciato dell’Appia antica in direzione di Ciampino, per consentire un collegamento abbastanza rapido con il secondo aeroporto della capitale, poichè il prolungamento della Linea A da Anagnina a Ciampino resta ancora un’ipotesi ventilata dall’ex sindaco Ignazio Marino. In questo modo sarà possibile favorire il trasporto pubblico a discapito di quello privato e annullando così il paradosso dell’automobile, che rischia di ripetersi in una metropoli europea sempre più grande e mal collegata, fanalino di coda nel trasporto pubblico in Europa.   






giovedì 31 marzo 2016

La Cintura Nord di Roma: l’altra grande incompiuta della capitale.

L’anello Ferroviario: la TAV di Roma.

Sono anni che se ne parla, tra ipotesi, progetti e ritardi e finalmente sembra che verrà realizzato una volta per tutte. Grazie al giubileo indetto da Papa Francesco, sarà possibile realizzare l’anello ferroviario di Roma, noto anche come cintura nord, una ferrovia che circonderà il centro storico dell’Urbe passando per le stazioni di San Pietro, Tiburtina Torino di Quinto e Ostiense in un’unica linea ferroviaria circolare. Ma quanto c’è voluto per poter realizzare tale opera? Andiamo ad analizzare tale opera.

La stazione di Pineto

La stazione di Vigna Clara

La stazione Olimpico-Farnesina


I primi progetti risalgono alla fine del 19° secolo, per poi essere realizzata a partire dal 1913 con una diramazione della ferrovia Roma Orte presso la stazione di Nomentana, passando per Ponte Milvio, Prati per poi finire alla stazione di San Pietro. Nonostante fosse stata completata quasi tutta, i lavori vennero interrotti nel 1931 a causa della realizzazione del Foro Italico voluto da Mussolini e dalla modifica del tracciato stesso, lasciando la linea incompleta, che sarà smantellata definitivamente con le Olimpiadi del 1960, dove al suo posto sorse un tratto dell’attuale Tangenziale Est. Il nuovo tracciato prevedeva che la linea partisse dalla stazione Aurelia, per poi attraversare Monte Mario e dalla stazione Torino di Quinto doveva collegarsi alla Stazione di Smistamento tramite un ponte sul Tevere. La realizzazione di tale opera, anche in questa occasione, fu interrotta quando la linea era a un passo dal completamento, stavolta a causa della seconda guerra mondiale. I lavori vennero ripresi nel dopoguerra, per essere definitivamente interrotti negli anni ’50 e i tracciati presenti a Torino di Quinto e Valle dell’Inferno vennero occupati abusivamente, dove sorsero le attuali attività artigianali. In occasione dei mondiali del 1990 in Italia fu realizzata una diramazione che da Valle Aurelia passava attraverso il nuovo ponte della Valle dell’Inferno, attraversava Monte Mario e si attestava poco prima di Torino di Quinto, con le due nuove stazioni di Vigna Clara e Olimpico-Farnesina. Purtroppo l’utilizzo della linea fu molto breve: solo otto giorni, ossia quando c’erano le partite allo Stadio Olimpico. Nell’ottobre del 1990 la linea fu definitivamente chiusa, salvo essere riutilizzata tra il 1997 e il 2000 nel tratto Valle Aurelia-Pineto in attesa della realizzazione dell’attuale tracciato della FR3.


Tracciato della linea


Il secondo tracciato è da sempre oggetto di discussione e al centro di scandali e speculazioni, in quanto ci sarebbero stati comportamenti e manovre illecite per la realizzazione delle due stazioni, accuse mosse dal procuratore Giorgio Castellucci: vennero rinviati a giudizio l'ex direttore generale del Ministero dei Trasporti Ercole Incalza, tre dirigenti generali delle Ferrovie (Arturo Pandolfo, Sandro Cerasoli e Gianfranco Marras), due ingegneri dipendenti dello stesso ente (Gianfranco Tiberi e Luigi Renzi), l'ex capo compartimento delle Ferrovie di Roma (Carlo Ianniello) e l'ingegnere direttore dei lavori Antonio Pacelli. I reati ipotizzati erano abuso d'ufficio e omissione d'atti di ufficio, ma nel 1995 tutti gli imputati sono stati prosciolti in quanto "il fatto non sussite": in parole povere nessuno poteva essere ritenuto colpevole di tale spreco di denaro. Per poter realizzare questa linea temporanea sono stati spesi ben 90 miliardi delle vecchie lire, di cui 45 per le due stazioni. Nel realizzare questa linea però fu ignorato un problema grosso: presso la stazione Olimpico-Farnesina non c’era spazio sufficiente per accogliere i treni provenienti da entrambe le direzioni, rischiavano di incastrarsi. Un lavoro fatto molto male, visto che non c’era denaro sufficiente (i lavori sarebbero costati ben 300 miliardi di lire) nè il tempo sufficiente per allargare la galleria e avere così la stazione pronta ed efficiente in tempo per i mondiali che sarebbero cominciati a breve. Per questo fu deciso di realizzare una banchina unica posta sul secondo binario, rialzata e costruita dai generi dell’esercito italiano. Tale stazione arrivavano circa 60000 persone, mentre a Vigna Clara quasi nessuno, nonostante quest’ultima disponesse di quattro binari di sosta. Le rotaie sono state rimosse, le barriere di protezione sono diventate una tavolozza per i graffiti mentre i tunnel sono divenuti il riparo per i senzatetto. Le stazioni, dopo la chiusura della linea, furono obiettivo di atti vandalici, la stessa stazione di Vigna Clara venne occupata da CasaPound, un partito politico minore di estrema destra. In tutti questi anni, a partire dal 1990, le varie giunte che si sono succedute a Roma hanno più volte promesso, soprattutto in campagna elettorale, di recuperare il tracciato e aprirlo in varie date prestabilite, in particolare quelle di Rutelli, Veltroni ed Alemanno hanno annunciato i migliori proclami e programmi, definendo il completamento dell'opera essenziale, l’ultima prevedeva addirittura il 2010, ossia sei anni fa, durante gli anni della giunta Alemanno, non riuscendo ovviamente a mantenere la parola data. 

Il ponte realizzato a Valle dell'Inferno

Particolare del Ponte: si nota l'assenza dei binari

Uscita della galleria dalla stazione di Vigna Clara

Altro particolare del ponte presso la Valle dell'Inferno.

Il tutto fa di questa linea l’altra grande opera incompiuta di Roma, assieme alla Linea C della metropolitana romana, una sorta di TAV romana: tanti soldi buttati al vento per un’opera che all’apparenza sembra inutile ed è stata usata poco. Eppure tale linea può tornare utile alla città, in quanto permetterebbe il collegamento delle stazioni della parte est della capitale con quelle della parte ovest in un’unica linea ferroviaria a doppio binario, sarebbe possibile alleggerire il carico di passeggeri dei treni e dei mezzi pubblici romani, che il più delle volte sono stracolmi e non possono garantire un servizio efficiente. Grazie al nuovo giubileo e alla candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024, Reti Ferroviarie Italiane e il Comune di Roma hanno stanziato 150 milioni di euro per recuperare il tracciato è poterlo così completare, realizzando così il ponte e il collegamento con la stazione di Smistamento. All’inizio si ipotizzava di inaugurare (di nuovo) la Cintura Nord per Pasqua di quest’anno (2016) ma molto probabilmente i lavori finiranno,forse, per il 2020. In tutto questo, però, è stata sacrificata la fermata Olimpico-Farnesina, ritenuta non necessaria e quindi destinata alla chiusura definitiva. Si tratterebbe di un grosso errore, lo stadio è l’unica struttura sportiva di una capitale europea sprovvisto di un collegamento ferroviario, fatta eccezione per la linea tram 2, i cui mezzi sono costretti a trasportare oltre 70000 persone dalla fermata della linea A. Visto che in futuro è in studio un possibile prolungamento della Linea C fino allo stadio stesso, se mai Roma dovesse aggiudicarsi le olimpiadi del 2024, l’Anello Ferroviario potrebbe essere una soluzione temporanea al trasporto delle persone, aleggerendo così il carico della linea tram, fino al completamento della linea metropolitana: si potrebbe addirittura realizzare un interscambio Linea C – Anello Ferroviario proprio nei pressi dello stadio, con le due stazioni collegate da un sottopassaggio simile a quello che collega Villa Borghese con la stazione Spagna della Linea A.


La realizzazione dell’Anello Ferroviario è uno dei più grossi problemi di Roma, ma una volta realizzato si potenzierebbe il trasporto su ferro nella capitale, si porterebbe a compimento un’opera che è costata un sacco di soldi e su cui in molti ci hanno speculato sulla sua realizzazione. 

lunedì 1 febbraio 2016

La persistenza geografica del Vallo di Adriano come limite geolinguistico

La mia tesi di laurea ha l’obiettivo di dimostrare che il Vallo di Adriano è stato un confine geolinguistico, una barriera per il Latino, l’Inglese, il Celtico e il Gaelico Scozzese, oltre ad essere un confine politico e militare. Grazie ai suggerimenti del personale della scuola di lingue IH Newcastle ho potuto reperire un sacco di materiale ed informazioni presso la Lit&Phil Library, la biblioteca comunale della città. Sono servite anche delle escursioni personali a Wallsend e a South Shield, nei pressi dei forti romani di Segedunum e Arbeia. Iscrivendomi all’Arbeia Society sono arrivati mensilmente dei fascicoli con informazioni storiche ed archeologiche che mi sono tornate molto utili per poter realizzare la mia tesi. Inoltre ho potuto approfondire le mie conoscenze di tutto il Vallo di Adriano grazie a un mio viaggio in Scozia a fine del 2013, cominciato proprio con la visita della maggior parte dei forti che elencherò.
Nel corso dei secoli si sono succeduti molti popoli, dai Celti fino a gli Inglesi, e la parte settentrionale dell’Inghilterra è sempre stata una zona di frontiera che in seguito è diventata un punto di contatto tra due mondi. A causa dell’assenza di barriere naturali come una catena montuosa o di un fiume, Il Vallo di Adriano stesso si può considerare come limes geolinguistico, un limite geografico artificiale, dal momento che separava due lingue e due culture, oltre a dividere militarmente due mondi totalmente diversi tra loro, i cui effetti si vedono ancora oggi: il Vallo stesso viene spesso identificato come il confine tra Scozia e Inghilterra e a nord della muraglia romana comincia il graduale passaggio alla lingua Scots, un ramo della lingua Inglese.
Il mio lavoro si concentra sulla dominazione  dell’Impero Romano, preceduta da un breve excursus sulle civiltà britanniche pre-romane, partendo dalla conquista di Cesare e dell’Imperatore Claudio, sulla lingua latina e celtica, l’eredità del mondo romano e celtico nella toponomastica in seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Infine discuterò del Latino e dell’influenza che ha avuto, assieme al francese e al celtico, sul lessico della lingua inglese e dei prestiti di parole da altre lingue e, infine, parlerò della lingua Geordie, il dialetto di Newcastle e cercherò di dimostrare che il Vallo di Adriano stesso sia stato non solo un confine politico e luogo di incontri e scontri tra le civiltà che vi sono state, ma anche come confine tra due lingue, basandomi sulle testimonianze storiche e sulla toponomastica di origine latina presente lungo il Vallo di Adriano. Comincerò con una breve esposizione della storia della Britannia, per poi parlare delle delle culture e delle lingue dei Celti e dei Romani. In seguito analizeremo la toponomastica lungo tutto il Vallo di Adriano, intrapendendo un vero e proprio viaggio geografico da Est ad Ovest in questa fantastica terra, partendo da South Shields  fino ad arrivare a Bowness-on-Solway. Analizzeremo la struttura della lingua Inglese, focalizzando l’attenzione sui vocaboli e delle influenze da altre lingue, dimostrando che tra tutte le lingue germaniche è quella molto più vicina alle lingue neolatine grazie al  Latino e al Francese; seguirà una breve descrizione del Latino Britannico e del Geordie, due ottimi esempi di una lingua neolatina estinta e di una lingua ancor oggi parlata. Vedremo come gli Atlanti linguistici e le fonti storico-geografiche hanno reso possibile l’identificazione dei forti posti lungo tutto il Vallo di Adriano e il ruolo che i GIS possono avere per la toponomastica; infine ne trarrò le conclusioni.
Per oltre 2000 anni si sono succeduti in Inghilterra molti popoli. Già abitata fin dai tempi della preistoria, dal VIII secolo a.C. i Celti cominciarono ad invadere l’Isola, sovrapponendosi definitivamente alle popolazioni autoctone a partire dal VI secolo. La loro cultura è una delle più evolute dell’Età Antica, purtroppo non veniva tramandata con i documenti scritti ma oralmente, di fatto le uniche testimonianze sui Celti le abbiamo grazie agli scritti greci e latini e grazie alle scoperte archeologiche e da fonti storiche come quella di Erodoto, abbiamo molte informazioni sui Celti e possiamo avere un quadro abbastanza chiaro su queste popolazioni. Come i Greci e gli Etruschi, i Britanni (nome delle popolazioni celtiche presenti sull’isola) non erano uniti ma divisi in varie tribù sparse per tutta la Britannia e sarà solo grazie al contatto con i Romani e, soprattutto, con i Belgi che la loro cultura e la loro società comincerà a cambiare. Dopo le spedizioni di Cesare, avvenute tra il 55 e il 54 a.C., ne sono seguite altre con l’obiettivo di assicurare a Roma l’isola, tutte fallite. Sarà con l’imperatore Claudio che comincerà la vera e propria conquista della Britannia, cominciata nel 43 d.C per poi concludersi nel 51 d.C., una campagna militare durata solo otto anni. Dopo la rivolta di Boudicca del 60 d.C., i Romani stabilirono definitivamente il loro potere sull’isola, anche se non riuscirono mai a sottomettere del tutto i Britanni: lingua e cultura celtica continuarono ad esistere anche con la presenza degli invasori. Le varie incursioni delle tribù britanne rimaste libere e dei Pitti motivarono l’imperatore Adriano a far erigere una muraglia per poter fermare le scorribande e i saccheggi di coloro che venivano identificati come barbari, nel 122 comiciò la costruzione del Vallo di Adriano, durata tre anni, e consolidò il potere e l’immagine di Roma in quelle terre. A seguito della crisi dell’Impero Romano, dovuta anche alle invasioni barbariche e al Sacco di Roma da parte dei Visigoti di Alarico, nel 410 d.C. le ultime legioni romane si ritirarono, abbandonando per sempre la Britannia dopo quasi 400 anni di dominio, lasciando l’isola e i suoi abitanti alla mercè dei popoli a nord del Vallo. i Romano-Britanni chiesero aiuto a Juti, Angli e Sassoni per difendersi dagli attacchi di Scoti e Pitti, permettendo così la penetrazione dei popoli germanici in Britannia e nel giro di pochi anni il numero dei popoli germanici aumentò così tanto che alla fine si ribellarono ai Romano-Britanni, spingendoli sempre più ad ovest e al nordd nelle regioni meno fertili dell’isola, quali il Galles e la Scozia.
Nonostante si fossero difesi bene, gli abitanti dell’isola non riuscirono ad impedire la nascita dei Regni Anglosassoni e Juti, quali il Northumberland, l’Anglia Orientale, Sussex, Essex, Kent, Wessex, Mercia. Verso la fine dell’VIII secolo d.C. i Vichinghi attaccarono la Britannia, secondo quanto riferito dalla Cronaca Anglosassone, il loro arrivo scardinò gli equilibri che si stavano lentamente formando in quest’isola divisa in tanti regni. Con i Normanni avvenne l’ultima invasione esterna dell’isola, avvenuta nel 1066 ad opera di Guglielmo II il conquistatore, re dei Normanni e nuovo sovrano dell’isola. Con la sconfitta e la morte di re Harold, l’ultimo sovrano d’Inghilterra, segna una nuova era per questa terra, caratterizzata dai cambiament messi ad opera da Guglielmo: verrà compilato, su ordinazione del nuovo re, il Libro di Domesday, dove verrà annotato di tassare popolazioni e le loro proprietà, si formerà la classe dirigente anglo-normanna. E anche la lingua cambierà profondamente, infatti la lingua dei nuovi invasori era il Francese, che nei vocaboli avrà una grande influenza assieme al Latino, “de-germanizzando” di fatto la lingua Inglese per buona parte. Dopo le guerre con gli Scozzesi, la Guerra dei cent’anni e la Guerra delle Rose, nel 1707 viene firmato l’Act of Union, che sancisce l’unione tra i regni di Scozia e Inghilterra, formando così il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Nasceva una nuova potenza mondiale, divenendo di fatto l’erede di Roma.
La prima linea difensiva romana era la Stanegate, una strada militare che collegava da Est ad Ovest i forti di Luguvalium e Corsopitum, fiancheggiata da postazioni di controllo e di difesa, ma non fu sufficiente a fermare le continue incursioni dei Pitti e dei Britanni liberi dal dominio di Roma lo stesso l’imperatore Adriano la giudicò inadeguata e  decise che la frontiera andava rinforzata in modo tale che avesse gli stessi effetti di barriere naturali, come ad esempio il fiume Reno, che sono assenti nell’isola, serviva una muraglia che tenesse lontani i barbari e che difendesse la civiltà romana che si era insediata nella Britannia. Costruito tra il 122 e il 125 d.C., percorreva 120 Km dall’Estuario del Solway ad Ovest a Wallsend ed era il confine posto più a nord di tutto l’Impero Romano, fatta eccezione del Vallo di Antonino situato nella Scozia meridionale utilizzato solo per vent’anni (144-164 d.C.), oltre ad essere il più pesantemente rafforzato e la sua costruzione consolidò la potenza e l’immagine di Roma in Britannia. Ancor oggi è oggetto di dibattiti e discussioni, in quanto la muraglia romana non deve essere vista solo come una postazione di combattimento poichè è evidente che, secondo le scoperte archeologiche e i documenti scritti giunti a noi,  ebbe anche il compito di regolare i traffici attraverso la frontiera. Con la crisi dell’Impero la consistenza delle guarnigioni cominciò a diminuire, fino ad essere completamente smobilitate già nel nel IV secolo d.C. abbandonando per sempre la frontiera che da lì al 410 d.C. si sarebbe ritirata ancora di più, in Gallia. Recentemente alcuni storici ed archeologi, basandosi su gli scritti della leggenda del Ciclo Arturiano, hanno avanzato l’ipotesi che non lontano da Newcastle sia ubicato il Monte Badon, lo storico campo di battaglia che avrebbe visto vittoriosi i Romano-Britanni sugli invasori Angli e Sassoni, anche se non è del tutto certo, in quanto si tratta solo di un’ipotesi remota poichè la sua ubicazione è ancora incerta.
Dopo il ritiro delle legioni Romane, il Vallo  continuò ad avere gli stessi di barriera, nonostante fosse caduto in disuso e  e subì lo stesso destino del Colosseo, ossia venne spogliato del materiale di cui era costituito per rendere possibile la costruzione di altri edifici e case nelle vicinanze. Pons Aelius entrò a far parte del regno anglosassone di Northumbria, e venne ribattezzata col nome di Monkchester, mentre Carlisle divenne la capitale del Regno di Cumbria. E se la prima diventò una zona periferica, Carlisle continuò ad essere una città di frontiera verso i Caledoni e nei secoli successivi con gli Scozzesi. È interessante che il Vallo di Adriano continuò ad essere utilizzato come confine anche nei secoli successivi al ritiro delle legioni, prova del fatto che quelle zone fossero “calde”, teatro di continui scontri/incontri tra civiltà, popoli ed eserciti.
Da sempre la lingua è una parte dell’identità di un popolo, della sua religione, di un’etnia o di un gruppo di persone e ad essa sono legate  gli aspetti socio-culturali e storici, grazie ad essa le persone possono comunicare ed interagire tra loro ad un livello medio-alto della società. Ogni gruppo linguistico ha i suoi dati etnici, si tratta di individui che parla la stessa lingua madre, caratterizzati dalla propria religione, nazionalità etnica, cittadinanza e così via. Aspetti che possono essere studiati, analizzati, viene considerata la loro distribuzione nello spazio, l’evoluzione o involuzione demografica. Ed è grazie alla toponomastica dei luoghi e alla linguistica che è possibile studiare le culture dei popoli.  Scopriremo che in Britannia ci sono pochissime tracce di nomi di origine celtica nella toponomastica, presenti soprattutto nella zona occidentale e fanno riferimento ad alcuni luoghi, mentre altri sono ibridi Latino-Celtico, perchè la cultura e la lingua Anglosassone erano diventate dominanti nella parte su-est dell'isola fin dall'inizio del VI secolo , cioè da quando Angli e Sassoni presero il sopravvento sui Romano-Britanni. E mentre il Celtico è quasi scomparso, il Latino ha avuto la fortuna di sopravvivere grazie anche alla Chiesa, poichè era ed è la sua lingua ufficiale, e tramite la toponomastica, le cui tracce sono ancor oggi evidenti in buona parte dei vocaboli. Ed è curioso che in una zona periferica come il Vallo di Adriano, dove la diffusione del Latino era estremamente bassa, il ricordo della presenza dei Romani e di tale lingua sia molto evidente: da Arbeia (South Shields) a Maia (Bowness-on-Solway), passando per le città di Newcastle Upon Tyne e Carlisle, la toponomastica fa spesso riferimento alla presenza militare dei più grandi conquistatori dell’Inghilterra dell’età antica. Una zona spesso teatro di scontri con i Pitti e i Britanni liberi, ma anche tra Inglesi e Scozzesi dal medioevo a l’età moderna; e non è un caso se Newcastle e Carlisle vengono ancor oggi identificate come città di frontiera. Ed è proprio in queste due città, assieme alla zona centrale del Vallo, che ho avuto modo di poter fare sopraluoghi: a South Shields, in prossimità del forte di Arbeia, sopravvive ancora la centuriazione, ossia il sistema stradale usato dai Romani nelle città; a Wallsend il ricordo del Latino è testimoniato dalla presenza di indicazioni stradali in due lingue, latino e inglese, anche il nome stesso “conserva” una parola latina, basti pensare che wall deriva da vallum, Wallsend significa “la fine del vallo”; Newcastle è quasi del tutto priva dei resti del Castrum, ma nonostante ciò il nome conserva in parte il ricordo della dominazione romana, non a caso nel medioevo la città era chiamata Novum Castellum, in riferimento alla nuova fortificazione che era costruita sulla base del forte romano di Pons Aelius; il nome di Benwell, quartiere ovest di Newcastle Upon Tyne, significa “il posto situato all’interno del vallo romano”, qui sorgeva un forte costruito a cavallo della linea del vallo, come se fosse attraversato dalla muraglia romana; l’area centrale del Vallo è caratterizzata dalla presenza di molti forti e dai resti di campi di marcia e torrette di avvistamento, è nota con il nome di Great Chesters, il cui significato è “grandi accampamenti”, anche se in epoca romana avevano nomi differenti (Onnum, Cilurnum, Aesica); Corbridge conserva ancora il nome latino Coria e in passato era la più grande città della Britannia settentrionale ed oggi è solo un villaggio; infine Carlisle, in Inghilterra nota come “The Great Border City”, letteralmente  “ la grande città di confine”, la seconda per estensione del tessuto urbano dopo Newcastle Upon Tyne, durante la dominazione romana era la seconda città di frontiera e la più grande lungo tutto il Vallo di Adriano, nota col nome di Luguvalium in età antica, il cui significato era “Città di Luguvalio”, un’antica divinità celtica, mentre il nome moderno significherebbe “la fortezza di Luguvalio”. Purtroppo della parte finale del vallo, situata ad ovest di Carlisle, e degli ultimi tre forti non è rimasto quasi nulla, quel poco che sappiamo lo dobbiamo alle fonti scritte, la Notitia Dignitatum e la Cosmografia Ravennate, oltre ai pochissimi resti dei forti presenti sul territorio.
Tutti inomi dei forti dislocati nel Vallo di Adriano, lungo tutto il suo tracciato oppure in posizioni diverse, sono noti da una serie di fonti letterarie: La Notitia Dignitatum, la Ravennatis Anonymi Cosmographia e altre fonti meno conosciute, quali le Tavolette di Vindolanda, la Coppa di Rudge e l’Itinerario Antonino. Scritti per descrivere la vita delle legioni e delle sentinelle poste lungo il confine fortificato, sono un ottimo esempio di documento geografico scritto, poichè descrivono anche la posizione dei vari forti presenti lungo tutto il vallo, oltre a risultare una sorta di “censimento” dei vari vicus e centri abitanti limitrofi alla barriera romana.
La lingua Inglese presenta nel lessico e nella grammatica molte influenze da parte di altre lingue, nonostante si tratti di una lingua di ceppo germanico, la Gran Bretagna è stata invasa a più riprese e ciò ha comportato diverse influenze dal Latino a lingue Scandinave e, in seguito, da  Normanni e Francesi, oltre ad aver beneficiato di apporti da parte del Greco e in minima parte dal Celtico. Basta pensare a parole che fanno riferimento ai prodotti, come ad esempio copper (cuoio rosso) che deriva da cuprum che significa cuoio, agli alimenti come cheese che deriva da caesus, street che deriva da strata (via), pillow (cuscino) da pulvinus, wall (muro) da vallum (palizzata), l’unità di misura inch (pollice) da uncla (dodicesima parte di un tutto) e così via. Ci sono stati numerosi casi di rinvenimenti di pietre miliari lungo le antiche strade dell’Inghilterra, molti dei quali sono distribuiti nei vari forti romani presenti lungo il Vallo di Adriano. Secondo un’indagine effettuata nel 1973 dai linguisti Thomas Finkenstaedt e Dieter Wolff, si stimava che, su circa 80.000 parole del dizionario Shorter Oxford Dictionary (3ᵃ ed.), oltre il 56% è di origine Latina e Neolatina, il 55%secondo Joseph M. Williams. Come possiamo vedere, l’Inglese è una lingua germanica molto vicina a quelle neolatine, la pronuncia stessa di alcune parole è molto più dolce rispetto al Tedesco o l’Olandese.
Il Geordie è un dialetto parlato nella Contea Tyne & Wear e nella zona nord-est dell’Inghilterra viene, soprattutto nelle aree di Gateshead e Newcastle stessa. Pviene considerato in buona parte la continuazione diretta e lo sviluppo della lingua Anglosassone della Northumbria. Nei  Regni Anglosassoni del medioevo si parlava l’Anglosassone che aveva le sue varianti a seconda della regione, ognuna di esse aveva delle variabili nella un fonologia, morfologia, sintassi e  nel lessico.  In quella dell’Inghilterra del Nord e nei confini scozzesi, in passato facenti parte del regno di Northumbria, ci stava un dialetto noto come  "Northumbrian" Old English. Il Geordie ha beneficiato, nei secoli successivi, di apporti da parte del Celtico Irlandese e della lingua Gaelica Scozzese, grazie alla presenza di migranti Irlandesi e degli Scozzesi che dominarono la città nel basso medioevo, durante le guerre con gli Inglesi; da allora il Geordie è rimasto privo di nuove influenze esterne, nonostante si sia registrata una forte immigrazione di gente proveniente da tutto il mondo, con conseguenti “migrazioni” delle loro lingue madri, addirittura è rimasto confinato entro la città di Newcastle. Si è ipotizzato che il termine “Geordie” potrebbe derivare da “George”, un nome molto diffuso nel Northumberland e in questi ultimi 30 anni con tale termine  si fa riferimento anche agli abitanti di Newcastle e di una parte della Northumbria, un caso analogo e simile a quello della Basilicata, anzi lo si può paragonare ad alcuni dialetti italiani, come ad esempio il Napoletano, visto la difficoltà di capire e apprenderne il significato delle parole. Eppure c’è chi lo considera non un dialetto ma una lingua diversa dall’inglese, un caso molto simile al Sardo e al Friulano.
Da segnalare anche il Latino Britannico, conosciuto come inglese Latino Volgare, la lingua ufficiale della provincia romana della Britannia parlata nel periodo della dominazione romana e post-romana. Essendo il Latino la lingua ufficiale della provincia romana,  era parlata soprattutto nelle zone meridionali e orientali, quelle più romanizzate dell’isola; era la lingua dell’élite di potere, della classe dirigente, degli abitanti delle città, dell’esercito e della Chiesa dopo la diffusione del cristianesimo. Ma non è mai riuscito a sostituire del tutto il Brittonico, parlato soprattutto dalla classe contadina, che rappresentava la maggior parte della popolazione della provincia, nonostante i numerosi tentativi di romanizzazione delle zone occidentali e settentrionali dell’isola, solo le élite rurali erano probabilmente bilingue. Quindi si può dire che il Latino Britannico era una variante del Latino, un pò come lo è oggi lo Scots, l’Inglese parlato nella Scozia meridionale. Con la fine del dominio romano, il Latino Brittonico è stato sostituito dall’Old English nella maggior parte di quella che divenne l’Inghilterra durante l'insediamento Anglosassone del V e VI secolo. Sappiamo che sopravvisse nelle regioni celtiche occidentali della Britannia occidentale fino a circa 700, quando fu sostituito dal lingue Brittoniche locali, mentre la sua fine come lingua parlata è incerta. Mentre in gran parte dell'Europa occidentale il Latino Volgare parlato è sopravvissuto e si è sviluppato dando origine a quelle che divennero le lingue romanze, in Gran Bretagna cessò di esistere come lingua parlata dopo la fine della dominazione romana a causa degli Anglosassoni e delle lingue Gaeliche, quali lo Scozzese e il Gallese.
Una lingua è parte dell’identità di una popolazione o di un’etnia, è parte essenziale della cultura, della religione, di una società e di uno stato. Grazie ad una lingua è possibile la comunicazione tra due o più individui diversi, da sempre gli esseri umani comunicano. Una lingua può subire influenze da altre lingue, beneficiare di prestiti per il lessico, mutare nel corso dei secoli o restare “pura”, per poi sparire gradualmente quando nessuno la studia più. Le lingue non restano immobili nei loro luoghi d’origine, ma si sposta nello spazio e nel tempo assieme agli esseri umani, i confini geografici nel corso dei secoli hanno “contenuto”i popoli entro i loro spazi geografici, limiti che erano difficili da superare come ad esempio una catena montuosa. Le lingue non restano sempre nella stessa area geografica ma si spostano assieme ad un gruppo di individui nello spazio, soprattutto negli ultimi anni che i trasporti si sono velocizzati e hanno consentito di collegare varie zone della terra nel minor tempo possibile. Eppure esistono dei limiti che possono impedire l’espansione di una lingua: un’isola, per esempio, può preservare a lungo la purezza di una lingua e dei suoi vocaboli, evitando il contatto e la contaminazione con altre lingue ed altre culture; ma anche una catena montuosa, in passato, poteva impedire l’espansione di una lingua stessa. Basti pensare, ad esempio, al caso del confine linguistico tra Emilia-Romagna e la Toscana, rappresentato dagli Appennini: dal Toscano di Massa e Carrara si passava subito a l’Emiliano. Il confine linguistico è il limite estremo convenzionale del territorio sul quale è diffusa una  varietà linguistica e può trovarsi in corrispondenza ad una realtà politico-amministrativa nel caso di una delimitazione netta di tipo etnico-linguistico. Nella geografia linguistica  non esistono limiti precisi fra dialetti ma solo confini di singoli fatti linguistici, se possiamo tracciare linee di demarcazione di singoli fenomeni, nel caso di un confine linguistico bisogna considerare dei fasci di isoglosse che si intersecano oppure sono contigue, poichè i fenomeni fonetici e morfologici non seguono mai le stesse linee di confine. Ogni isoglossa ha il suo tratto distintivo. Se sullo stesso asse geografico insistono una o più isoglosse significative si può individuare un confine netto, tale da determinare una classificazione rigorosa delle varietà linguistiche da esse delimitate. R. Breton nel suo libro “Geografia delle lingue” sostiene che tutte le lingue del mondo non sono uguali tra loro sia per la diversa massa dei locutori sia per lo stadio di sviluppo raggiunto da ciascuna di esse tramite l’espressione della cultura.
Secondo la teoria di Breton esistono cinque livelli di sviluppo delle lingue, in corrispondenza dei quali esistono cinque stadi di perfezionamento degli strumenti di comunicazione e di dimensioni del suo uso: un  primo livello è costituito da lingue prive di scrittura, di tradizione orale, parlate tribali ritenute primitive e anche di dialetti usati sia tra le mura domestiche che in pubblico,  la loro sopravvivenza è minacciata dalle lingue di cultura e da processi di contaminazione e corruzione, ma anche per”disaffezione” da parte dei loro interlocutori che vengono attratti dalle lingue e culture predominanti; al secondo livello troviamo le lingue locali o vernacole (dal latino vernaculus, che significa indigeno) la cui sopravvivenza è garantita da uno sforzo di fissazione per iscritto, esse rientrano nell’ordine delle lingue lette rizzate (o Schriftsprace); abbiamo un terzo livello, caratterizzato dalla crescente diffusione di lingue veicolari (in tedesco verkehrsprache, ossia lingua commerciale), poi adottate da varie etnie, esse costituiscono un legame interetnico e interregionale; al quarto livello ci sono le lingue nazionali, espressione di un gruppo etnico ben consolidato nel territorio che ha compiuto il processo di unificazione politica e nel corso degli anni si è dato una cultura ben individuata e affermata in vari piani (letterario, scientifico, ecc.) ed espressa nella propria lingua, il numero di parlanti va da poche centinaia di migliaia di locutori fino alle centinaia di milioni; infine abbiamo il quinto livello, costituito da lingue usate da molti stati come strumento di relazione e interrelazione e legame culturale, al di là di ogni divergenza linguistica, etnica e storica, proprio come accadde al Latino, lingua ufficiale dell’Impero Romano e per oltre 18 secoli lingua franca dell’Europa Occidentale. Una lingua si diffonde in aree geografiche assieme al suo popolo di appartenenza, per vari processi e vari motivi: ad esempio il territorio originario non era più in grado di sostenere la popolazione che si è vista costretta a migrare da un’altra parte.
Le lingue col passare del tempo cambiano, mutano, si arricchiscono di vocaboli presi in prestito da altre lingue o possono “decadere”. L’estinzione linguistica avviene quando non ci sono più i locutori nativi di una lingua oppure poco prima della scomparsa dell'ultimo locutore nativo: se restano pochi locutori anziani la lingua può essere considerata morta, in quanto non è più usata nella comunicazione. Si tratta di un processo lento e graduale in cui le generazioni successive imparano di meno le sottigliezze della lingua, finché di essa resta solo la testimonianza nei testi scritti, come ad esempio le poesie oppure le canzoni. L’estinzione può partire dal basso verso l’alto (dai nuclei familiari) o dall’alto verso il basso (da enti governativi), può essere radiale oppure essere improvvisa a causa di genocidio o malattie. Esistono diversi meccanismi che portano all'estinzione linguistica, come ad esempio l’imposizione di un'altra lingua che costringe le popolazioni locali sottomesse a parlare la lingua dei colonizzatori e di fatto viene proibita la lingua da “distruggere”;  un altro esempio è rappresentato dalla competizione linguistica (si pensi a l’Inglese e al Francese per le pubblicazioni scientifiche), ma anche lo sterminio del popolo che parla la lingua o la distruzione di una  cultura tradizionale portano all’estinzione di una lingua. Come ci suggerisce R. Breton, uno dei motivi che comportano la morte di una lingua può essere di tipo extralinguistico, oltre all’involuzione, dialettizzazione e diglossia; un buon esempio è la graduale scomparsa di un’etnia ad opera di un’altra e ciò comporta la dispersione dei suoi locutori e le nuove generazioni abbandonano gradualmente la loro lingua madre per passare, dopo un periodo di bilinguismo, alla nuova lingua dominante.
Il Latino viene spesso considerato una “lingua morta”, estinta, che nessuno parla o studia più. Avrà  subito un ridimensionamento negli ultimi duecento anni, ma è bene ricordare che nonostante fosse stato sostituito dalle lingue barbare in una parte d’Europa, non è mai stato soppiantato del tutto, proprio nel medioevo ha avuto una sua ripresa grazie alla Chiesa, essendo la sua lingua ufficiale (ancor oggi parlata nel Vaticano), era la lingua d’elite e della cultura. Ed è proprio grazie alla Chiesa che è stato possibile riportare il Latino nella Britannia e poter superare confini che ai tempi dei romani non fu possibile, come ad esempio il Vallo di Adriano stesso. Ancora oggi continua ad essere studiato nelle scuole e nelle università, è diventato anche la lingua ufficiale della scienza, è un valido pilastro per la scuola, ed è grazie ad esso che hanno avuto origine le moderne lingue neolatin, l’alfabeto latino ha gradualmente sostituito, nella grammatica, le rune delle lingue germaniche ed è e infine, come ho già detto, ha avuto un’importante influenza sulla lingua Inglese sia dal punto di vista dei vocaboli che per la toponomastica dei luoghi.
Per realizzare un atlante cartografico si usano vari sistemi, due di questi si basano sulle isolinee e con il mosaico. Nel caso degli atlanti linguistici utilizzeremo soprattutto le isoglosse, le linee che delimitano determinate zone che condividono dei tratti linguistici comune, possono essere di tipo lessicale,fonetico, morfologico o sintattico, vengono tracciate delle linee curve che "delimitano" determinate zone di territori che condividono dei tratti linguistici comune, che sia lessicale o fonetico. Ma le lingue possono condividere o non condividere una data isoglossa a seconda che abbiano in comune o meno quel certo tratto o fenomeno linguistico, quindi le isoglosse possono segnare il confine tra due aree geografiche che presentano una o più differenze linguistiche.

Al giorno d’oggi del Vallo di Adriano resta solo una parte di esso, il tronco occidentale è del tutto sparito, ad est la strada A69 ricalca l’antico tracciato, mentre gran parte dei fortini è andata perduta, ma fortunatamente è stato possibile identificare la posizione esatta dei forti grazie alla Notitia Dignitatum e alla Cosmografia Ravennatae, ma ancor di più grazie alle fotografie aeree sul posto: mentre alcuni forti hanno conservato parte della loro struttura, degli altri rimangono solo i solchi lasciati dalla presenza delle mura e dei fossati che circondavano i forti. Altri siti conservano in parte la rete stradale interna dei valli, come ad esempio il villaggio di Bowness on Solway o Burgh by Sands. Ed è grazie ai ritrovamenti storici e alla testimonianza delle varie fonti scritte che è stato possibile ricostruire “virtualmente” l’antico tracciato del Vallo di Adriano e “riposizionare” i fortini e le torrette demolite nel corso dei secoli anche se in modo del tutto approssimativo. Negli ultimi anni, grazie ai GIS (Geographic Information System) è possibile acquisire, gestire, analizzare e visualizzare tutte le forme di informazione geografica di riferimento, consente di rispondere a domande e risolvere i problemi, cercando di dati in un modo che è compreso rapidamente e facilmente condiviso. Su Google Earth, esistono dei tools creati da vari utenti che hanno ricreato il vallo basandosi sulle informazioni in possesso da storici, linguisti, archeologi. Se abbiamo un database riguardante la parte centrale del Vallo, potremmo teoricamente interpolare tali dati per dimostrare che il numero dei forti e dei campi di marcia presenti sul territorio può essere dovuto al fatto che la presenza militare in quella zona era giustificata per l’alto rischio di attacchi da parte dei Pitti. Ma è anche possibile tracciare una mappa dei forti distribuiti lungo il tracciato in chiave della toponomastica: così facendo ci accorgeremmo che quasi i toponimi di origine latina non vanno oltre il Vallo. È anche possibile provare a ricostruire una mappatura della diffusione delle lingue presenti in Inghilterra nel corso dei secoli, anche se si tratterebbe di dati approssimativi, in quanto non abbiamo un quadro chiaro al 100% della diffusione del latino in Britannia, sappiamo che era la lingua ufficiale nelle città, mentre coesisteva con il brittonico nelle zone rurali.

Concludendo, si può considerare il Vallo di Adriano un confine Geolinguistico? Si, perchè i Romani non sono riusciti a dominare i territori oltre il vallo stesso, fatta eccezione per la breve dominazione della Caledonia (20 anni), e poter così diffondere la loro lingua. Nel corso dei secoli questo storico confine  ha diviso più di una volta due lingue diverse tra loro, come accadde tra il Brittonico e il Latino, il Cumbrico e il Gaelico Scozzese, e soprattutto tra l’Inglese e lo Scozzese. Una prova evidente ce la da la toponomoastica: tutti i luoghi al di sotto del Vallo sono in gran parte di origine romana, poi col tempo cambiati per l’arrivo delle lingue germaniche, quali l’Anglo, il Sassone e il Kentiano, mentre a nord del muro romano sono ancora presenti tracce del Pittico e, soprattutto, del Gaelico Scozzese, ll breve periodo della dominazione romana in Scozia non è stato sufficiente affinchè il Latino si radicasse bene in quelle terre e desse origine a una lingua neolatina, il contrario di quello che avvenne in Dacia (Romania). E anche la toponomastica Brittonica rimase immutata fino all’arrivo degli invasori germanici durante e dopo il ritiro dei romani dall’isola. Il Vallo di Adriano, quindi, ha avuto gli stessi effetti di un confine linguistico naturale, poi decaduti con le invasioni barbariche e con l’Act of Union del 1707.
C’è ancora molto da scoprire, e in alcuni forti romani come quello di Arbeia si sta ancora scavando e riportando alla luce i resti di questi avamposti romani e dei villaggi ad essi adiacenti che aggiornano le nostre conoscenze storiche, geografiche e linguistiche di questa terra, per certi versi  ancora limitate. In fondo siamo ancora esploratori, perchè se le conoscenze geografiche del nostro pianeta sono quasi complete, lo stesso non si può dire per la toponomastica e per la geografia delle lingue. Secondo gli storici e i linguisti Inglesi c’è ancora tanto da scoprire. Essi paragonano ciò che è noto ad uno scheletro, cioè l’ossatura del corpus linguistico del Latino in Inghilterra.

Le lingue col tempo mutano come le nuvole nel cielo, seguendo la storia e la cultura dei popoli che le parlano; pertanto la risposta alla domanda se un limite antropico può contenere una lingua, è che questo è possibile, ma solo  per un determinato periodo di tempo: i confini possono resistere e dividere, ma quando vengono superati si crea un mondo nuovo, dove vecchie e nuove conoscenze si fondono, trasformando ed arricchendo i popoli.